Allarme dalla Ragioneria dello Stato sulle pensioni. Secondo un rapporto sulla spesa, gli interventi di legge “diretti non tanto a sopprimere esplicitamente gli adeguamenti automatici” sulle pensioni, inclusi gli scatti di età, “ma a limitarli, differirli o dilazionarli, determinerebbero comunque un sostanziale indebolimento della complessiva strumentazione del sistema pensionistico italiano”. E “ritornare nella sfera della discrezionalità politica” determinerebbe un “peggioramento della valutazione del rischio paese”.
L’aumento dei requisiti minimi, ricorda la Rgs, sono parametri “fondamentali” di valutazione dei sistemi pensionistici “specie per i paesi con alto debito pubblico come l’Italia”. Si tratta di un fattore “irrinunciabile” non solo sul fronte della sostenibilità ma anche perché “costituisce la misura più efficace per sostenere il livello delle prestazioni”. Nel documento si ricorda peraltro che esiste una clausola di salvaguardia che farà comunque scattare l’aumento dell’età minima a 67 anni dal 2021.
Lo stop all’adeguamento automatico dell’età di uscita alla speranza di vita non solo comporterebbe un “significativo peggioramento del rapporto fra spesa pensionistica e Pil” ma causerebbe anche “un abbattimento crescente nel tempo dei tassi di sostituzione”, ovvero del rapporto tra l’ultima retribuzione e l’assegno. L’allerta arriva dalla Ragioneria generale dello Stato. Insomma, si potrebbe dire, ‘pensionato avvisato mezzo salvato’, chi spinge per andare via prima deve essere consapevole che poi avrà pensioni più povere. Nel Rapporto sulle “tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico”, firmato Rgs, si stima, con il blocco dell’età, un taglio progressivo nell’arco di cinquant’anni, a partire dal 2020: fino a raggiungere “12,8 punti percentuali per un lavoratore dipendente”, da oltre il 60% a meno del 50% della busta paga, “e 10 punti percentuali per un lavoratore autonomo”.
Bloccando l’età a 66 anni e 7 mesi (e a 67 dal 2021) si determinerebbe secondo la Ragioneria un “peggioramento anche dell’adeguatezza delle prestazioni pensionistiche rispetto alla normativa vigente”. Pensioni da ‘peso piuma’ che si spigherebbero sia con il “più basso coefficiente di trasformazione”, la quota dello stipendio che viene tradotto in pensione, legato all’età di uscita, e sia con “la corrispondente minore anzianità contributiva”, visto che si cumulerebbero meno anni di lavoro. Mantenendo invece l’automatismo, che inevitabilmente fa salire l’età, il divario tra pensione e retribuzione non si scosterebbe di molto rispetto ai livelli di oggi. Il prezzo da pagare è però un abbandono al mondo del lavoro ritardato, che, stando alle attuali previsioni, aumenterebbe a 68 anni dal 2031 e a 70 anni dal 2057.
(ANSA)