Solcherà l’oceano Atlantico, percorrendo 19.650 chilometri quadrati, per recarsi in un solo Paese. La Colombia è l’unica meta del prossimo pellegrinaggio internazionale di papa Francesco. In genere, nel dover percorrere una simile distanza, il Pontefice abbina più nazioni. Stavolta non l’ha fatto.
L’itinerario si snoda lungo l’asse Bogotà-Villavicencio-Medellín-Cartagena. La concentrazione geografica, tuttavia, è inversamente proporzionale al respiro geopolitico del viaggio. Forse il più latinoamericano, e, al contempo, globale. Bergoglio va – lo ha detto più volte – per accompagnare la Colombia nel primo passo verso la pace. Una pace troppo a lungo impensabile e impensata. La violenza è stata, fin dall’indipendenza, lo strumento cardine per la risoluzione delle controversie. Lungo i secoli XIX e il XX, politica e società – a volte anche la religione – si sono illuse di mettere fine allo scontro cancellando – fisicamente – l’avversario. Il conflitto – incapace di trovare canali di espressione verbali e legali – s’è cronicizzato, pervadendo l’intero corpo nazionale. La guerra tra governo e guerriglia delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) è, dunque, espressione paradigmatica di un fenomeno drammaticamente più complesso.
Anche perché esse è una contesa a cavallo di due ere: la Guerra fredda, nel cui contesto è nata, e la globalizzazione, con l’irruzione del narcotraffico e il suo effetto moltiplicatore del conflitto. Eppure, negli ultimi anni, qualcosa è cambiato. «Governo e Farc, senza mediatori esterni, hanno provato a confrontarsi con l’arma della parola. Lo hanno fatto, con u- na scelta lungimirante, al riparo della ribalta mediatica e fuori dalla Colombia: dal 2012, per i quasi quattro anni successivi, si sono incontrati all’Avana. Non era il primo tentativo di arrivare a un compromesso. Se è stato l’ultimo, con l’accordo dello scorso 24 novembre, si deve anche a Francesco, il cui ruolo è stato determinante» , spiega Gianni La Bella, storico dell’università di Modena e Reggio Emilia e noto studioso di cristianesimo latinoamericano che, per la Comunità di Sant’Egidio, ha seguito in prima linea l’intero iter. «Il Papa ha fatto una sorta di mediazione indiretta, svolgendo un’azione di rassicurazione nei confronti delle parti. In particolare per le Farc ciò era imprescindibile.
La guerriglia si è rivolta più volte a Francesco: ho consegnato io stesso tre sue lettere. Da quegli scritti emergeva come essa riconoscesse nel Pontefice l’unica autorità morale in grado di dare slancio al negoziato ». L’appello al termine dell’Angelus dell’Avana, il 20 settembre 2015, dunque, è stato la punta dell’iceberg di un accompagnamento costante. Compiuto a “distanza di sicurezza” in modo da garantire la massima libertà d’azione ai protagonisti. «Questi ultimi hanno scelto di fondare la pace sulla riconciliazione. Che non vuol dire impunità. Le parti hanno optato per una giustizia non riconducibile alla formula “reato-condanna- reclusione”. La cosiddetta “giustizia restaurativa” prevede che il responsabile ammetta le proprie colpe, chieda perdono e cooperi alla ricostruzione della verità. La pena più che colpire il carnefice mira a risarcire le vittime: il primo lavora per restituire alla società quanto il suo operato le ha tolto. Una visione inedita rispetto ai precedenti processi di pace realizzati in America Latina – spesso caratterizzati dalla semplice amnistia – e non solo.
Per questo, il dialogo dell’Avana fa storia». I negoziatori hanno compreso che il passaggio dal Kalashinov alla parola richiede un cammino di conversione, sociale, culturale, politico e spirituale. La meta – la possibilità di coesistenza fra diversi – non è né facile nè scontata. Ma, per lo meno, il processo è stato avviato. Francesco, il Papa dei “processi”, vuole sostenerlo. Perché la pace impossibile colombiana, divenuta possibile, è un messaggio per l’America Latina, dilaniata da una nuova stagione di crisi. E per il mondo.
Lucia Capuzzi da Avvenire