«Il popolo, in Italia, è abitualmente dedito alla lettura dei poemetti in cui sono ricordate le circostanze notevoli della vita dei banditi più famosi: gli piace ciò che vi è in quella di eroico, ed esso finisce col nutrire per loro un’ammirazione assai vicina al sentimento che, nell’antichità, i Greci provavano per alcuni loro semidei.»
Così Stendhal, di passaggio per l’Italia, annotò nel suo breve saggio I briganti in Italia, confluito nell’opera Passeggiate romane pubblicata nel 1829. Non fu immune, il francese, che pure dai briganti fu rapinato sulla via Appia, dal fascino che costoro esercitavano sui letterati del Grand Tour: nelle loro memorie si cristallizzava il mito romantico del fuorilegge, diventato un topos letterario negli scritti di Irving , Byron e Scott che definirono l’immagine eroica del brigante: uomo di indomata indole che difende i ceti più deboli contro i soprusi dei potenti. La genìa dei Robin Hood, degli Zorro, la Primula Rossa, Fra Diavolo è tutta riconducibile a questo prototipo di difensore delle povere genti: un uomo che un tempo viveva nel consesso civile ma che, per un torto subito, si rifugia nei monti, nel fitto delle boscaglie, da dove sferra attacchi sanguinari ai suoi nemici, mosso, il più delle volte, da personalissimi motivi più che da un progetto politico.
La costruzione romantica del mito del brigante obbedisce in realtà a una cornice narrativa in cui si ripetono i medesimi schemi. Così le gesta banditesche diventano miti astorici, la cui suggestione dura tutt’oggi.
Un capitolo a parte costituiscono le storie di donne che si diedero alla macchia per seguire i loro uomini. Fra costoro, di straordinaria bellezza, c’è la casertana Michelina di Cesare che nel 1863 sposò il bandito Francesco Guerra, diventando così, da meschina ladra di capre, leggendaria regina di briganti. Si rifugiarono, i due sposi malandrini, sulle colline di Vallemarina; di qui piombavano a valle, depredavano le abitazioni dei “galantuomini” di San Castrese o del celebre possidente Cordecchia, finché il ministero dell’Interno sguinzagliò sulle loro orme il generale Pallavicini, il più noto cacciatore di briganti. Ne scaturì battaglia ferocissima, con tanto di dispiegata artiglieria, nei pressi di Roccamonfina. I disperati si rifugiarono nelle cavità degli alberi secolari, furono scovati e uccisi. Il cadavere di Michelina, con una messinscena di raffinata ferocia, venne esposto sotto il sole su un carrello nella piazza di Mignano: era domenica, e quel cadavere penzolante servì da monito alle genti che andavano a messa, tra cui molti simpatizzavano per i briganti che catalizzavano la rabbia antipiemontese e le nostalgie borboniche degli uomini del Meridione.
L’ostensione del cadavere di Michelina fu in realtà l’ordinaria espressione della repressione delle autorità, la cui ferocia non era minore di quella brigantesca. Ruffiani e cacciatori di taglie (celebri quelli al soldo dei Dogi veneziani) praticavano facilmente il taglio della testa. Un vile manutengolo, per scampare la galera, promise la testa dei briganti Giacomo Purra e Giuseppina Gizzi al sindaco di Bracigliano: spiccò la testa dei due amanti con un coltello da macellaio e le consegnò al sindaco che, dopo averle fatte imbalsamare, le collocò in un’urna nel suo ufficio. Al riguardo, divenne leggenda narrata l’epigrafe che il brigante Carmine Oddo gli ritorse contro: memento mori, sindaco.
Uomini violenti, banditi o eroi popolari? A tutt’oggi il fenomeno storico del brigantaggio meridionale attende una risposta chiara ed esaustiva.
Una storia dei briganti nel Regno di Napoli deve partire dalla dominazione aragonese e dipanarsi fino alle vicende collegate all’unità d’Italia.
Visti nel rapporto con le masse popolari, i proprietari terrieri e le autorità, i briganti napoletani si presentano ora come il frutto della miseria e dell’ansia di riscatto dei contadini, ora come strumento nelle mani dei Borbone.
Di sicuro Marco Sciarra Angiolillo, Fra Diavolo, Carmine Crocco, Ninco Nanco e persino brigantesse come Nicolina Licciardi (che non furono inferiori ai loro compagni per efferatezza e crudeltà) sono stati sempre aiutati ed amati dai contadini, che li hanno resi immortali nella fantasia e nelle leggende popolari.
Sin dalla prima metà del Quattrocento, durante il Regno degli Aragonesi, vi furono ribellioni spontanee da parte dei contadini verso i proprietari terrieri.
Una delle prime fu organizzata da Antonio Centelles, che costituì una sorta di esercito, a cui si opposero le truppe di Ferrante d’Aragona, figlio naturale di Alfonso. I contadini si rifiutavano di pagare i tributi regi, ma vennero massacrati nel 1459 nella piana di Santa Eufemia.
Il fenomeno non si spense ed un altro capopopolo, Marco Berardi, nel 1599, riuscì a sconfiggere le truppe regie a Crotone, nonostante da alcuni anni il conte di Olivares avesse emanato un editto con il quale si condannavano a morte i rivoltosi e si istituivano delle taglie di 100 ducati sulle teste dei contumaci. Seguirono altre ordinanze ancora più severe, come la Prammatica del duca d’Alba nel 1622.
Anche durante il dominio degli austriaci, che succedettero al vicereame spagnolo, le rivolte non si fermarono e numerose erano le bande che incutevano timore, tra ruberie e razzie.
Nel 1734 salì al potere la dinastia dei Borbone con Carlo III, che nulla riuscì contro il dilagare del banditismo, il quale si accentuò durante il regno del figlio Ferdinando, nonostante l’opera meritoria del Ministro Tanucci. Anzi, durante gli anni in cui fu sovrano, si sviluppò la leggenda di Angiolillo, le cui gesta ispirarono dei canti popolari in auge per tutto l’Ottocento.
Sul finire del Settecento vi fu la temporanea caduta di Re Ferdinando, l’avvento delle truppe francesi ed il sorgere della Repubblica Partenopea il 23 gennaio del 1799.
Ci pensò il Cardinale Ruffo a riconquistare il trono, muovendo dalla Calabria a capo di un esercito, composto da briganti, contadini e delinquenti comuni che, in omaggio alla Santa Fede, furono chiamati Sanfedisti. Da questa guerra, efferata e truculenta uscirono i primi nomi di briganti “politici”. Tra questi spicca la figura di Fra Diavolo, alias Don Michele Pezza, come si firmava negli editti che emanava nella veste di comandante della regia truppa.
Era il re delle montagne, dove dettava legge. Si unì alle truppe del Cardinale Ruffo e dopo la Restaurazione il sovrano lo nominò duca di Cassano, elargendogli un vitalizio annuo di 3000 ducati.
Anche sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat il brigantaggio divampò e fu duramente represso. Nel 1806 venne catturato e condannato alla forca Fra Diavolo, impiccagione avvenuta a Piazza Mercato e gli fu permesso per l’occasione di indossare l’uniforme dell’esercito borbonico ed il titolo di duca di Cassano al collo.
Durante l’opera di repressione furono catturati anche Taccone, che rientrò a Potenza in groppa ad un asino con un cartello infamante al collo e Quagliarella, che, tradito dai compagni, venne ucciso dai contadini, desiderosi di intascare la taglia.
E giungiamo così alla grande stagione del brigantaggio postunitario sulla quale il giudizio degli storici è ancora controverso.
Fino ad ora si trattava di rivolte di contadini e di bande dedite al saccheggio, lo smembramento dell’esercito volontario garibaldino, la mancata concessione delle terre demaniali a chi vi lavorava ed un governo centrale a Torino sordo alle rivendicazioni, diedero luogo ad un brigantaggio politico, incoraggiato da una deriva neoborbonica e favorito dalla conformazione geografica del Meridione, tutto boschi e monti, difficile da controllare.
A partire dall’inverno del 1861 cominciarono ad organizzarsi bande di briganti che agivano colpendo i grossi proprietari terrieri, collusi col governo e le scarne guarnigioni, che non riuscivano a tenere sotto controllo il territorio.
Uno dei nomi di spicco fu Carmine Crocco, già caporale dell’esercito borbonico, dal quale aveva disertato. Uomo astuto, molto amato dalle donne, diede filo da torcere all’esercito sabaudo, fregiandosi del titolo di generale della reazione borbonica.
Alla sua banda si affiancò Ninco Nanco, proveniente dal disciolto esercito garibaldino, dal quale portò molti fucili. Il suo regno era la cittadina di Melfi, da dove iniziò la sua marcia, occupando città, aprendo carceri e saccheggiando le casse comunali. Giunse fino all’avellinese, conquistando sempre nuovi adepti.
Il brigantaggio dilagava anche nel casertano e nel beneventano ed in tutta la Calabria, per cui a Napoli arrivò con molta truppa il generale Cialdini , che cominciò ad intensificare l’opera di repressione, con rappresaglie verso le popolazioni che si erano schierate con i rivoltosi. Una tra le pagine più sanguinose fu scritta a Pontelandolfo , dove essendo stati uccisi 45 soldati, un battaglione dei Bersaglieri mise a ferro e fuoco l’intero paese.
Se il cuore del brigantaggio fu la Basilicata, anche Napoli ebbe un suo condottiero, un certo Pilone, così sopranominato perché molto peloso. Agiva alle porte della città nel Vesuviano e fu autore di combattimenti ed imprese sensazionali, che lo portarono a rifugiarsi nello Stato Pontificio, dove conobbe le galere papaline, da cui scappò e fu ospitato per alcuni mesi dall’esule Francesco II, che abitava a Palazzo Farnese. Chiuse le sue avventure ucciso in un’imboscata a Via Foria.
La storia ricorda anche un fenomeno di brigantaggio “nobilitato”, i cosiddetti Cavalieri di Francesco II, i quali si proponevano di restaurare il deposto Regno Borbonico. Furono organizzati da due generali, Vial e Clary e finanziati dal Principe di Scilla. Fu la stessa intrepida ex regina Maria Sofia, che, indossando abiti maschili, riunì a Roma i capibanda più famosi, convincendoli a partecipare al folle progetto.
Lo Stato Pontificio vedeva con occhio benevolo l’operazione, obbligando alcuni conventi ad ospitare e proteggere personaggi come Chiavone, Crocco e Ninco Nanco.
Nell’estate del 1861 il comando fu assunto da uno spagnolo, Josè Borjes, il quale, dopo essersi incontrato con Crocco, con 1200 uomini, discese dal Vulture, iniziando una delle più memorabili imprese di brigantaggio postunitario, ma sorpreso da un drappello di Bersaglieri, venne fucilato a Tagliacozzo.
Altri cavalieri stranieri meno noti subirono la stessa sorte, dimostrando eroismo nel momento fatale, come il marchese belga De Trazegnies, che rifiutò la benda davanti al plotone di esecuzione o il conte di Kalckreuth, che chiese, accontentato, di poter comandare lui stesso i soldati impegnati a fucilarlo. (Una scena tra comico e romantico che ci rammenta Totò in uno dei suoi celebri film).
Il brigantaggio divenne una spina nel fianco del Governo Ricasoli, che diede precise direttive per mettere fine al fenomeno. Cominciò una severa opera di repressione,accentuatasi quando, nel 1863, il governo aprì una commissione d’inchiesta, da cui scaturì la relazione Massari, la quale fornì una precisa carta geografica della disposizione delle bande.
Come atto legislativo nell’agosto del 1863 fu varata la legge Pica, che spostò ai tribunali militari la competenza e considerò colpevoli anche parenti e manutengoli dei banditi. Furono stabiliti anche cospicui premi per i delatori.
Intorno al 1870 l’opera di sterminio poteva dirsi conclusa. Uno dei colpi più significativi venne inferto grazie al tradimento di Giuseppe Caruso, già luogotenente di Crocco, al quale il generale Pallavicini offrì l’immunità. Egli conosceva bene i nascondigli. Lo stesso Crocco, vedendosi braccato, si rifugiò a Roma dove però venne arrestato e trovato dalle autorità italiane nel carcere di Paliano.Fu processato a Potenza e condannato all’ergastolo che scontò a Portoferraio, dove morì nel 1905.
Pallavicini riconobbe non poche doti militari ad alcuni dei più famosi capibanda e la loro generosità verso i contadini, i quali li onorarono rendendoli immortali nei loro canti.
Le storie dei briganti più famosi, affidate alla tradizione orale nei secoli, ha trasformato la realtà in fantasia, la ferocia in leggenda. A Napoli, per tutto il Novecento, cantastorie girovaghi ne narravano le eroiche gesta, alla pari dei paladini di Rinaldo. Una letteratura popolare invisa alle classi dominanti. In anni successivi poeti e scrittori hanno rivisitato il mito, tra questi Rocco Scotellaro nei suoi libri fa emergere le misere condizioni dei contadini ed il sogno infranto di uno stato che si prendesse cura delle masse rurali.
E Carlo Levi nel suo celebre Cristo si è fermato a Eboli,descrivendo le terre del silenzio e della solitudine, negò a queste anche il conforto di un Dio pietoso, fermatosi ai confini di un mondo dimenticato.
De Roberto ne I Viceré traccia un grandioso affresco storico in cui si dipanano le speranze deluse dall’impresa garibaldina.
Un mondo contadino, nel quale “tutto cambia affinché nulla cambi” è il filo conduttore del romanzo di Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo.
E possiamo concludere con I Terroni di Pino Aprile e siamo oramai ai nostri giorni.