Correggiamo ora i dati anagrafici di alcuni pittori del Seicento, partendo dal celebre Massimo Stanzione, autore di splendidi dipinti che ritraggono “nature” polpose fanciulle dall’epidermide porcellanata. I dati biografici del pittore sono ancora avvolti dal mistero e si basano unicamente su quanto asserito dal De Dominici, il quale riferisce che egli nacque ad Orta di Atella nel 1585 (ma probabilmente la data va spostata in avanti di qualche anno) e muore durante la peste del 1656, a tal punto che più di uno studioso ha voluto identificare nel famoso quadro di Micco Spadaro raffigurante la piazza del Mercatello, in basso a destra, l’artista mentre esala l’ultimo respiro dopo aver ricevuto l’estrema unzione. Tale data è in contrasto con quanto segnalato da numerose guide ottocentesche (Catalani, Nobile) che parlano di una tela del pittore siglata e datata 1658, ancora oggi presente nella chiesa di S. Pietro in Vinculis, anche se purtroppo mutila nella parte inferiore.
Avendo accennato al Gargiulo, autore di importanti rappresentazioni di cronaca cittadina e di scene di martirio vogliamo cogliere l’occasione per correggere l’anno della morte dell’artista, prendendo in esame: Sullo stato delle arti a Napoli, uno scritto fatto conoscere dal Ceci, che Pietro Andreini inviò al cardinale Leopoldo De Medici, in cui dichiarava che “ Micco Spadaro, pittore di figurine e di paesi, morì che sono tre anni”. Il Ceci riteneva che tale nota fosse stata inviata nel 1678, ma grazie alle diligenti ricerche del Ruotolo, pubblicate nel 1982, si è identificato il giorno esatto nel 20 dicembre 1675, per cui la data della morte è lapalissiano che debba retrocedere al 1672, come da noi già suggerito da alcuni anni a pagina 100 della nostra opera “Il secolo d’oro della pittura napoletana”.
Di Agostino Beltrano, marito di Annella De Rosa e di cui presentiamo un inedito autoritratto abbiamo già parlato, quando abbiamo riportato la favola dell’uccisione della moglie partorita dalla fertile fantasia del De Dominici.
Esaminiamo ora una «Immacolata Concezione» allogata in S. Maria la Nova sulla destra della parete del coro, la quale per evidenti motivi rappresentativi è databile a non prima del 1662. Essa infatti raffigura il papa Alessandro VII e l’imperatore Filippo V, che si incontrarono l’otto dicembre del 1661 e sancirono ufficialmente l’iconografia dell’Immacolata Concezione.
Questa attribuzione sposterebbe di molto in avanti la data della morte del Beltrano, forse fino al 1665 indicato dal De Dominici, in forte contrasto con il 1656 comunemente accettato dagli studiosi.
Tra i luoghi misteriosi di Napoli, intrisi di antiche leggende e stupefacenti misteri, la Cappella Sansevero, situata nel centro antico della città, occupa un posto di rilievo, perché legata indissolubilmente alla figura del proprietario, il celebre principe ritenuto da sempre un incrocio tra scienziato pazzo e mago stregone e che recenti ricerche stanno ampiamente rivalutando, riproponendone la figura come quella di un profondo conoscitore di segreti alchemici, uomo di grande cultura ed ai vertici della potente massoneria partenopea.
Da sempre la fantasia popolare è stata eccitata dalla presenza, nei sotterranei della Cappella, di due scheletri con un sistema cardio circolatorio in stupefacente stato di conservazione e si è vociferato che fossero stati creati dallo stesso principe, iniettando una segreta mistura nelle vene di due suoi servitori, ancora vivi, pietrificati in tal modo per l’eternità. Alcune recenti ricerche di medici napoletani tendono a considerare i due scheletri, almeno parzialmente, semplici macchine anatomiche, degli artefatti per quanto mirabili, ma non vogliamo parlare di questo argomento, che tratteremo in seguito, bensì del famosissimo Cristo velato, opera di Giuseppe Sanmartino.
Lo scultore è presente con molte sue opere in molte chiese napoletane, realizzazioni di buona, a volte ottima fattura, ma solo una volta egli raggiunge livelli sovraumani di abilità e perfezione assoluta: nel Cristo velato, un vero e proprio prodigio tecnico, che permette di vedere chiaramente sotto un velo di marmo le fattezze di nostro Signore.
Questo unicum, oltre a far giungere a Napoli folle di visitatori da tutto il mondo aveva incuriosito appassionati d’arte e cultori di segreti alchemici. Si mormorava di un intervento diretto del principe nella realizzazione dello straordinario lenzuolo trasparente…, fino a quando, tempo fa, una studiosa napoletana, Clara Miccinelli, aveva pubblicato alcuni documenti notarili comprovanti l’antica leggenda, ma la serietà della comunicazione si perse nei meandri di una troppo pervicace disamina esoterica dell’argomento, per cui l’importante notizia non è stata valutata e recepita dagli studiosi di storia dell’arte.
Abbiamo personalmente controllato il documento, conservato nell’archivio napoletano e stilato dal notaio Liborio Scala il 25 novembre 1752, tra Raimondo di Sangro ed il Sanmartino, nel quale i due contraenti si accordano sulla realizzazione della scultura e sul segreto da mantenere. Trascriviamo alcuni passi inequivocabili:” ad apprestare una Sindone di tela tessuta, la quale doverà essere depositata sovra la scultura acciò dipoichè esso Principe l’haverà lavorata secondo sua propria creazione; e cioè una deposizione di strato minuzioso di marmo composito in grana finissima sovrapposto al velo. Il quale strato di marmo dell’idea del signor Principe farà apparire per sua finezza il sembiante di nostro Signore dinotante come fosse scolpito di tutto con la statua. Viceversa il sig. Joseph S. Martino si obbliga alla pulitura ed allustratura della Sindone e a non svelare al compimento di essa statua la maniera escogitata dal Principe per ricovrire la statua”.
Un altro documento reperito dalla studiosa ci rende nota la formula segreta del principe per la sua stupefacente creazione:” Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di frassino. Covri la grata della fornace co’ carboni accesi a fiamma di brace con l’ausilio di mantici a basso vento. Cala il modello da covrire in una vasca ammattonata, indi covrilo con velo sottilissimo di spezial tessuto bagnato con acqua e calcina…. Sarà il velo come di marmo divenuto al naturale e il sembiante del modello trasparire”.
I due documenti dimostrano oramai in maniera inequivocabile, nonostante non siano noti a gran parte degli studiosi, i limiti dell’abilità del Sanmartino ed aumentano a dismisura la fama del principe. Probabilmente, anche se al momento mancano i riscontri cartacei, pure le altre due sculture velate della Cappella: la Pudicizia del Corradini ed il Disinganno del Queirolo sono state eseguite con la collaborazione del principe, anche se va segnalato che il Corradini, giunto a Napoli in tarda età, aveva già eseguito statue dotate di velature molto abili, come l’omonima Pudicizia conservata al Louvre.
In tempi più recenti, un documento nell’Archivio Storico del Banco di Napoli, a detta di alcuni studiosi, ha testimoniato che il velo della scultura è esclusivamente da attribuire al genio scultoreo del Sanmartino.
Passiamo ora alla culinaria affermando che uno dei luoghi comuni più diffusi, ma anche meno precisi, è quello che riguarda la radice povera e popolare della cucina napoletana. In realtà, a partire dalla seconda metà del ’700, in città si è avuta una vera e propria rivoluzione gastronomica segnata dalla crescente influenza della Francia e dall’incrocio delle tecniche parigine con le materie prime del territorio oltre che della pasta. Sono stati i monzu, cuochi di corte e delle cucine aristocratiche, i protagonisti di questa ondata, perché se l’Italia ha conosciuto la nouvelle cuisine negli anni ’70, le tecniche francesi sono arrivate a Napoli e in Sicilia quasi due secoli prima.
Ma in cosa consiste l’influenza della Francia nella cucina napoletana a cavallo tra ’700 e ’800?
In due aspetti fondamentali: il primo costituito dalla tecnica di utilizzo dei prodotti che punta agli accostamenti e all’arricchimento progressivo del piatto, una costruzione sempre barocca, ricca di sapori. Il secondo è l’introduzione di alcune salse di base, che ancora oggi distinguono l’impostazione della cucina classica transalpina da quella del resto del mondo.
Ma questi due elementi vengono tradotti a Napoli in primo luogo con la voglia di colpire la fantasia e la cura della scena, che ancora oggi è un elemento predominante nel comportamento psicologico partenopeo. E poi con le materie prime: verdure di grandissima qualità, frutta dal sapore inimitabile e, soprattutto, la pasta, nata in Sicilia ma adottata a tal punto da trasformare i napoletani da mangiafoglie a mangia maccheroni in un solo secolo.
Non manca il riso, altro prodotto del Sud di cui si sono perse tracce, i peperoni imbottiti di peperoni, le palle di maccheroni, ripresi da Rosanna Marziale la cui cupola però in questo caso è la mozzarella, ricetta che ha sbancato nella finale di Masterchef . Anche materie prime moderne, come tonno e fagiolini, diventavano complesse ricette come la mousse di tonno ai fagiolini nella quale entrano, pensate, ben 200 grammi di maionese e 70 grammi di panna montata. Resta un quesito antropologico non di poco conto: come mai a Napoli in cucina i poveri hanno «vinto» sui ricchi? In una parola, perché la gastronomia campana si ispira alle preparazioni di strada o a quelle vegetali elaborate ai tempi della fame atavica del popolo napoletano e non a queste sontuose preparazioni presentate nelle tavole dei nobili? Forse la prima risposta che si può dare è nella perdita progressiva di importanza del ruolo sociale dell’aristocrazia napoletana, passata in poco meno di un secolo da un ruolo di assoluta preminenza europea a quello di consumo della rendita fondiaria e di difesa dei privilegi senza avere più la capacità di governo.
Al tempo stesso la cucina della classe borghese, peraltro in città mai egemone culturalmente e socialmente, è per antonomasia figlia dell’omologazione oltre che dell’inappetenza salutista. Inoltre, dobbiamo dirlo, questa cucina ricca di grassi e di salse è assolutamente difficile da sostenere con i ritmi attuali di vita, i tempi ristretti per cucinare, e le preoccupazioni dietetiche. Insomma, si presenta come una cucina poco attuale in un momento in cui i ricchi mangiano quello che mangiavano i poveri (verdure) e i poveri quello che mangiavano i ricchi (la carne). Così questa cucina al momento viene coltivata quasi come una lingua morta, ricca di fascino per chi la conosce, ma assolutamente ininfluente nella vita quotidiana di tutti i giorni. Eppure, ne siamo sicuri, i giovani cuochi potrebbero trarre più di una ispirazione da queste costruzioni gastronomiche, piatti pensati per stupire le tavolate.