Viviamo una schizofrenia tra diritti, governo dei territori e gestione della cosa pubblica.
Cittadinanza, politica e amministrazione non sono più un sistema unitario volto a sorreggere e sviluppare il complesso rapporto di ciascuno di noi con lo Stato, né cooperano per obiettivi comuni attraverso i quali il Paese – come sistema sociale, economico e culturale – possa operare scelte per un futuro possibile e sostenibile.
Nel 2001, dopo un faticoso dibattito di oltre quattro anni, per cucire lo strappo tra cittadini e politica che aveva accompagnato la cosiddetta fine della prima Repubblica, fu approvata la riforma del Titolo quinto della Costituzione. Si apriva allora una nuova prospettiva (per alcuni regionalista, per altri federalista) fondata sul trasferimento alle regioni di un’importante asse di competenze legislative.
Non sono neppure trascorsi tre lustri e se ne riparla di nuovo. La convinzione generalizzata è che quella prima riforma, anche se non ancora del tutto attuata, non funzioni. Troppi poteri alle regioni, troppo onerose le province, ancora troppo lenta e arrugginita la macchina burocratica.
“Riformare la riforma” alla luce dell’esperienza può essere la soluzione? Tante le voci che si accavallano e, in modo talora demagogico o solo superficiale, propongono le soluzioni più diverse. Quale bussola possiamo usare per orientarci? Credendo che, sulla questione, il punto di vista dei giovani abbia una significativa importanza, mi sono fermato a discuterne con un gruppo di studenti del mio Dipartimento di Scienze Politiche alla SUN. “Da dove comincereste questa riforma?”. “È necessario ridurre le competenze esclusive delle Regioni, hanno dimostrato di non saperne fare buon uso. Basta pensare alla sanità della Campania”, esordisce Sabrina. “Consorziamo i piccoli comuni e federiamo le province”, continua Raffaella. “Non riesco a immaginare il funzionamento di Napoli come città metropolitana… sarà un’altra puntata della serie ‘io speriamo che me la cavo’?”
Giuseppe, così, mette in campo l’ironica rassegnazione di un giovane meridionale con la difficoltà di sentirsi inserito nel futuro che gli spetta. Capisco che il problema centrale per questi giovani è la crescente distanza della politica dalle loro esigenze. Allontanamento che è di per sé ineluttabile se pensiamo alle ragioni profonde della corrente crisi economica. Economia e politica viaggiano a velocità diverse: sempre più globale e rapida la prima, mentre l’altra, preoccupata dalle logiche del consenso e incerta nel seguire i sondaggi del giorno, appare incapace di spiccare il volo, di guardare avanti, di pensare strategicamente.
Se il luogo delle scelte si allontana dal punto dove ciascuno di noi si trova, allora è fondamentale colmare il vuoto di rappresentanza che viene a crearsi. Anche la cittadinanza, cioè quello spazio di diritti (e doveri) condiviso da tutti i soggetti che insistono su un dato territorio (più o meno vasto), è un fenomeno sempre più complesso tanto da divenire un puzzle i cui pezzi quasi mai si incastrano l’uno con l’altro. Siamo cittadini, oggi, con tante diverse cittadinanze, dall’Europa fino al nostro comune, con le stesse teoriche tutele, ma differenti opportunità e potenzialità.
Nella realtà il diritto alla salute o al lavoro o allo studio a Berlino è cosa ben diversa da Napoli. Percepisco nei miei studenti la preoccupazione che manchino anelli di congiunzione nella catena di trasmissione della rappresentanza democratica dal singolo cittadino fino all’Europa e oltre. La preoccupazione che la voce non arrivi e non sia ascoltata è grande. La previsione costituzionale, che consente in questo campo l’intervento di una pluralità di soggetti gerarchicamente sovraordinati, invece, è potenzialmente capace di rispondere alle esigenze di intervenire dal basso nelle scelte della politica.
Apro un altro capitolo: la crisi economica ha dato indiscutibile evidenza alla non sostenibilità dei costi connessi con una macchina politico-amministrativa così complessa. “Il problema è che manca una regia unitaria, manca un coordinamento delle politiche e dei connessi interventi normativi ai diversi livelli. Lo spreco è quindi inevitabile”, intervengono.
“Ogni atto, ogni procedimento nella pubblica amministrazione costa troppo rispetto al risultato”. Penso come la burocrazia sia nata, poco più di due secoli fa, per difendere i diritti del ‘semplice’ cittadino rispetto ai privilegi di cui godeva il cittadino facoltoso o il nobile. Eppure, discutiamo, oggi esistono strumenti tecnologici che consentono di rifondare l’amministrazione degli enti locali e dello stato nella prospettiva di un nuovo rapporto con i cittadini: e-democracy, e-government, amministrazione trasparente, cittadinanza digitale, ecc. sono strumenti ampiamente sperimentati con successo nella maggior parte dei paesi europeie occidentali.
La stessa esigenza di ‘riformare per risparmiare’, in questa luce, appare un mito. Vista dal basso, al livello delle persone ‘comuni’ (e dei miei studenti), è più importante incontrare un’amministrazione attenta alle sfide della cittadinanza e capace di produrre risultati coerenti con la crescente complessità delle strutture socio-economiche, piuttosto che immaginare l’abolizione o correzione di un solo segmento del sistema.
L’ottica della cittadinanza, per questo, diviene un punto di riferimento essenziale per valutare l’efficacia della riforma costituzionale delle autonomie locali, per comprenderne l’orientamento complessivo. L’unica vera riforma sostenibile sarà quella capace di incidere sulla responsabilità politica e amministrativa dei rispettivi livelli decisionali e gestionali di tutti i soggetti che concorrono a determinare il corretto funzionamento del sistema (con tutte le sue relazioni) nel quale siamo inseriti: per avere stessi diritti e stesse tutele in ogni parte d’Italia e d’Europa.