E’ un azzardo soffermarsi a riflettere sulla parabola dell’Ulivo mentre si chiude il ventennio berlusconiano?
Non per Gerardo Bianco che ha scritto, per Rubettino, un racconto della cosiddetta Seconda Repubblica di cui è stato tra i protagonisti come segretario del Partito Popolare Italiano e, quindi, tra i fondatori del centrosinistra guidato da Romano Prodi. La testimonianza del politico irpino, che è stato deputato, capogruppo della Democrazia Cristiana e ministro della Pubblica Istruzione, copre gli anni tra le elezioni politiche del marzo 1994 e quelle regionali del 2000: anni fitti di vicende politiche, sociali e istituzionali importanti per l’Italia e l’Europa. Uno snodo cruciale per la democrazia italiana in quanto con le elezioni parlamentari del 1994 si chiude un’epoca: quella che aveva visto, alla guida dell’Italia Repubblicana, il movimento politico dei cattolici democratici in collaborazione con gli altri partiti laici e socialisti, ispirati ai comuni valori dell’europeismo e delle democrazie occidentali.
Per Bianco le cause della crisi della Prima Repubblica sono molteplici e di varia origine: alcune di lunga durata e con radici socio-politiche, anche internazionali, altre più ravvicinate come la delegittimazione giudiziaria che investì nel loro complesso le formazioni politiche che avevano governato l’Italia.
Gerardo Bianco viene eletto segretario politico del Partito Popolare Italiano nel marzo del 1995, ad un mese dalle elezioni per il rinnovo dei Consigli di 15 Regioni a statuto ordinario. La sua segreteria fu subito impegnata per ridurre i danni della scissione del partito operata dall’allora segretario Rocco Bottiglione, messo in minoranza in Consiglio Nazionale per la illegittima decisione di schierare il partito con la destra alle elezioni.
Dopo le elezioni, Bianco dovette affrontare due fatti che avrebbero profondamente influenzato la politica e le istituzioni negli anni successivi: da un lato la creazione, in vista delle elezioni politiche del 1996, di una formazione politica di centro-sinistra di tipo federativo; dall’altro i risultati delle elezioni del 1996 che videro contrapposte due grandi coalizioni: l’Ulivo ed il Polo delle Libertà che, per la prima volta nella storia della Repubblica, erano identificabili con i nomi dei loro leader, rispettivamente Romano Prodi e Silvio Berlusconi.
La nascita dell’Ulivo suscitò molte speranze tra quanti nel centro-sinistra consideravano i tradizionali partiti inadeguati rispetto alle conseguenze che all’Italia e all’Europa erano derivate dalla caduta del Muro di Berlino e dall’avvio impetuoso di una nuova mondializzazione dell’economia, della finanza e della politica.
Le speranze, però, furono deluse. L’Ulivo ebbe infatti vita difficile e breve per i contrasti al suo interno tra coloro che consideravano l’assetto dell’Ulivo di tipo federale il primo passo sulla via di una rapida trasformazione in partito unico (Prodi, Parisi, Veltroni) e coloro che puntavano a rafforzare l’Ulivo di tipo federale (Bianco, Marini, Meccanico, D’Alema).
Per Bianco l’obiettivo di un Ulivo di tipo federale si imponeva perché, dalla seconda metà dell’800 ai primi anni del ’90 del secolo scorso, le coalizioni centro-sinistra avevano dato il maggior apporto allo sviluppo civile, economico e sociale dell’Italia, in quanto avevano corrisposto in misura maggiore di altre alleanze agli elementi costitutivi della identità nazionale e alle sue espressioni politiche.
Il prevalere della tesi di Prodi (Ulivo come partito unico) contribuì a rendere tormentato il cammino del suo primo Governo che tuttavia realizzò uno degli obiettivi prioritari che si era proposto: portare l’Italia nel gruppo dei Paesi che avrebbero per primi adottato la moneta unica europea. Obiettivo che il Ppi di Bianco aveva sempre considerato irrinunciabile per far parte della maggioranza dell’Ulivo.
L’ascesa al Governo di Massimo D’Alema consegnava all’Italia una situazione politica ed in Parlamento desolante perché caratterizzata da oltre 20 gruppi, prodotti non da movimenti con radice nella società, ma da operazioni parlamentari, facilitate da una sconcertante legge sul finanziamento pubblico della politica. Una situazione che, oltretutto, smentiva la tesi di coloro che avevano attribuito in gran parte al sistema elettorale proporzionale la complessità e le lentezze delle dinamiche politiche e la vita ridotta dei Governi della cosiddetta Prima Repubblica. E sostenevano che l’adozione di un sistema elettorale maggioritario fosse la panacea di quei mali.
La tesi sul maggioritario fu sempre contestata da Bianco per il quale il valore del sistema proporzionale (corretto da un adeguato sbarramento percentuale alle liste per poter concorrere al riparto dei seggi, e dalla adozione della sfiducia costruttiva per poter sfiduciare il Governo) era dato non solo dal fatto che, storicamente, si era dimostrato il più rispondente alla realtà culturale, sociale e politica della tradizione italiana e, in particolare, dalla prova, largamente positiva, che aveva dato tra il 1946 e il 1992. Bianco, inoltre, considerava il sistema proporzionale quello più idoneo a favorire l’inserimento nelle istituzioni di tutti i gruppi politici portatori di idee e istanze tali da arricchire la rappresentatività e la funzionalità delle stesse.
Nel libro viene ripercorso ed analizzato anche il complesso e conflittuale rapporto tra politica e settori della magistratura, tra i quali di maggiore rilievo fu quello dei processi a Giulio Andreotti a Palermo e a Perugia conclusi con assoluzioni piene. Per Bianco, essi hanno finito per rivelarsi tentativi di contestare il ruolo della Dc quale struttura portante della democrazia italiana nel secondo dopoguerra, dando legittimità storica alla teoria complottista del “doppio Stato”, per la quale gli americani e la mafia, con il supporto della Dc, avrebbero comandato in Italia dal 1943 in poi.