Giunsi per la prima volta a Palermo nel settembre del ’56.
Per la verità ero stato a Monreale qualche anno prima, come membro del Coro della Scarlatti. Eseguimmo il “Te Deum” di Haendel nel Duomo, prezioso esempio di architettura arabo-normanna. Non vale però perché di Palermo non vidi niente.
Ero un giovane sottocapo delle Ferrovie dello Stato, capitato a Palermo insieme ad una “rocchia” di napoletani neo-assunti. Ci fecero un lungo corso di formazione. Allora si usava così. Corsi di abilitazione al movimento, al telegrafo, all’epoca c’era ancora il mors, gestione viaggiatori, bagagli e merci. Gli istruttori erano tutti vecchi ferrovieri siciliani. Siciliani giovani come noi ce n’era un bel gruppo. Facemmo subito amicizia.
Fu un periodo bellissimo.
Avevamo tutti i pomeriggi liberi che passammo alla scoperta di Palermo. A me sembrò una nobildonna decaduta che conservava le tracce della sua bellezza e della sua passata nobiltà. La Kalsa, Ballarò, ‘A Vucciria ,il Capo, i giardini lussureggianti con enormi “Fichi delle pagode” erano le mete delle nostre scarpinate. L’aria era tersa e calda, le sere profumavano di gelsomino e le vetrine delle pasticcerie erano dolci tentazioni. Le vie erano piene di profumi: l’odore appetitoso delle “stigghiole” alla brace, quello delle padelle in cui friggevano le quaglie, non gli uccellini ma piccole melanzane spaccate in tre parti. ‘U pani cca meuza, le panelle di ceci. Insomma: ci sarebbero voluti due nasi per seguirli tutti. La scoperta della colazione mattutina: brioche calda con gelato o granita. Una vera delizia. Nei vicoli c’erano le botteghe di erboristeria, molto popolari a Palermo. Non pensate alle vostre erboristerie dove vi vendono a peso d’oro vasetti colorati di crusca di farro o di bucce di “passion fruit” o di papaia.
Erano antri oscuri dalle cui travi pendevano fasci di tutte le erbe generate da quella generosa terra. Si entrava ed il profumo era così intenso da dare il capogiro. Non ho mai capito come facesse il negoziante a starci un giorno intero. Immancabile sulla porta un recipiente dì’acciaio col rubinetto. C’era il decotto di gramigna, per i palermitani un vero toccasana per le sue proprietà diuretiche. Al tramonto i colori erano rutilanti e le sciabolate dei raggi del sole cadente facevano risaltare tutte le volute ed i ricci delle barocche architetture. Era però una vita quasi monastica. Sperare di avere contatti con le giovani esponenti del gentil sesso era impossibile. Le picciotte erano bellissime ma sempre sotto la sorveglianza feroce dei maschi di famiglia. In certi vicoli una guardata, una taliata, di troppo poteva avere brutte conseguenze.
Mi capitò una volta di guardare, distrattamente, una di queste picciotte. Il padre che l’accompagnava attraversò di corsa la strada e mi aggredì: «Lei: chi avi a taliari ?» Nella mia totale ignoranza del dialetto, che poi ho imparato benissimo, dissi: «Scusi, me lo può dire in italiano perché non la capisco.» Lui di rimando: «lei stava guardando mia figlia.» «Sua figlia?» dissi io «E chi è sua figlia?» Quello, inferocito: «E’ questa qui!», una bella ragazza per la verità. Me ne uscii con una “napoletanata” pensando di essere spiritoso e dissi: «Effettivamente c’è da guardare!» Apriti cielo: dal vicolo adiacente, alle urla del padre, uscì tutto il parentado con pessime intenzioni ed io e l’amico che stava con me dovemmo fare affidamento alle nostre giovani gambe.
In questa Palermo un giorno, stavo in trattoria con un paio di amici. Parlavamo di un caso giudiziario che interessava, all’epoca, l’opinione pubblica. Al tavolo accanto al nostro era seduto un vecchio e dignitoso signore che mi rivolse la parola dicendo: «Mio giovane amico mi permette una parola? Ebbene sappia che la legge si applica ma per gli amici si intreppreta.» Quella vecchia conversazione mi è tornata alla mente sentendo delle vicende di Dell’Utri e di Silvio Berlusconi. Al primo hanno dimenticato di togliere il passaporto ed il meschino, consapevole delle inefficienze del nostro sistema sanitario, è andato in Libano, famoso per il welfare, a curarsi. Per il secondo, dopo mesi di tira e molla, la pena esemplare è stata 6 ore settimanali in un ospizio per anziani. Pena severissima, feroce, forse esagerata. Non oso sospettare che ai giudici sia arrivato qualche invito alla prudenza per non mettere in crisi accordi parlamentari, ma sicuramente essi si sono comportati così perché influenzati dallo”zeitgeist”: lo spirito dei tempi.
Andreotti diceva: «A pensar male si fa peccato ma si indovina.» Vuoi vedere che il vecchio Belzebù aveva ragione?