Officina delle idee

Il “disastro” delle società pubbliche in house providing

Articolo estratto dal numero Link di marzo 2014

Nel nostro Paese le Pubbliche Amministrazioni, favorite dallo stesso legislatore, hanno mantenuto negli ultimi venti  anni la “sacca” del privilegio derivante dall’affidamento diretto della gestione di servizi pubblici a società partecipate e quindi in deroga ai principi comunitari della concorrenza e della trasparenza. Abbiamo assistito, per queste ragioni ad un percorso legislativo composito e spesso del tutto incoerente, caratterizzato da frequenti ripensamenti, fatta eccezione per una costante: la crescente e progressiva espansione delle società c.d. in house, anche attraverso la trasformazione di aziende speciali, consorzi ed istituzioni.

Ciò in un’ottica rivolta (solo) formalmente alla aziendalizzazione dei servizi e ad una privatizzazione effettiva (come auspicato dal legislatore sin dal 1942), in realtà sostanzialmente diretta ad evitare procedimenti ad evidenza pubblica (negli acquisti e nelle assunzioni di personale) e a sottrarre comparti dell’amministrazione ai vincoli di bilancio ed ai patti di stabilità, anche in considerazione della mancata applicazione all’ente-capogruppo dei principi di consolidamento di diritto societario a partire dall’elisione delle partite reciproche (obbligatori solo da quest’anno).

Il contesto è stato pesantemente dominato dalla figura della società interamente pubblica, affidataria in house providing e del suo collegamento funzionale con l’ente di riferimento, tanto da far evocare una situazione abnorme di delegazione interorganica chica. Questo modello gestorio trova la propria origine in una rivisitazione, che definirei strumentale, da parte del nostro legislatore della giurisprudenza comunitaria, che in particolare nella famosa sentenza Teckal aveva escluso l’applicabilità delle norme sull’individuazione concorrenziale del concessionario qualora testualmente l’ente “eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno – nel Novembre del 2013 – preso atto di questo quadro ed hanno adattato l’impostazione comunitaria, al fine di riconoscere, per la prima volta, la giurisdizione della Corte dei Conti sulle azioni di responsabilità agli organi sociali delle “famigerate” società in house.

I giudici del Supremo consesso hanno qualificato questo genere di società come una mera articolazione interna della P.A. una sua longa manus al punto che l’affidamento diretto neppure consentirebbe di configurare un rapporto intersoggettivo di talché l’ente in house “non potrebbe ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma dovrebbe considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”.

Il passaggio della sentenza più forte è quello secondo cui “il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva”. Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, sarebbe “arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l’attribuzione alla Corte dei Conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità”.

In realtà è pericoloso ipotizzare, in assenza di norma espressa, che la società in house sia un patrimonio separato sprovvisto di autonoma personalità e di alterità soggettiva rispetto al socio. È peraltro operazione ripetibile nei confronti di qualsiasi soggetto che faccia un uso meramente strumentale del veicolo societario.

Il nuovo orientamento della Cassazione sulla giurisdizione per le società in house nasce dalla sollecitazione delle Procure presso la Corte dei Conti, che ha evidenziato come condizionamenti di carattere politico finiscano col rendere altamente improbabili iniziative serie da parte degli enti locali dirette a sanzionare gli organi societari (controllati) davanti al giudice ordinario, dando luogo ad un sostanziale esonero da responsabilità di soggetti che pure arrecano danno a società sostanzialmente pubbliche.

Abbiamo avuto modo, già da anni, di segnalare che le esigenze socio-economiche e politiche dovevano trovare risposta nella emanazione di “norme efficienti” ovvero nella interpretazione giurisprudenziale efficace, capace di sanzionare l’abuso del modello societario, utilizzato per soddisfare obiettivi “impropri” attraverso la segregazione patrimoniale.

In particolare si era rappresentato che la società, rimane un contratto tipico con comunione di scopo lucrativo, soggetto al diritto comune, che non può essere “storpiato o manipolato” per finalità abusive dirette a creare in vitro una sorta di azienda speciale, organica all’ente per alcuni fini e separata per altri, solo per ottenere una autonomia formale e la conseguente disapplicazione delle regole pubblicistiche.

La strada più semplice sarebbe stata l’emersione di un tipo di società pubblica “legale” cioè individuata e disciplinata dalla legge cui applicare regole in deroga al diritto comune, analoghe a quelle vigenti per le aziende speciali. Ma visto il silenzio del legislatore, che nonostante i buoni propositi “dichiarati” non è intervenuto espressamente a riconoscere la più efficace giurisdizione della Corte dei Conti (ed a porre un argine effettivo al disastrato mondo delle società in house), le sezioni unite non hanno potuto far altro che sostituirsi (come troppo spesso sta accadendo negli ultimi tempi) al fine di raggiungere il risultato più efficiente, in un momento tanto delicato per la finanza pubblica. Conclusione clamorosa e devastante per la finanza pubblica (ed in particolare per i bilanci degli enti locali) è inevitabilmente quella che non essendovi – secondo le sezioni unite – alterità soggettiva, tutti i creditori della società in house divengono creditori dell’ente pubblico, verso cui possono agire in via diretta. Così l’orientamento della suprema Corte, frutto di un intento diretto a salvaguardare l’erario dalla diffusa mala gestione degli organi sociali di società strumentali, raggiunge, per una sorta di “eterogenesi dei fini”, il risultato esattamente opposto cioè quello di aprire una voragine nei conti pubblici derivante dalla responsabilità diretta delle pubbliche amministrazioni per tutti i debiti contratti dalle famigerate società in house providing.

Ogni ulteriore commento sarebbe evidentemente superfluo.

Potrebbe piacerti...