di Mariano D’Antonio*
Quest’anno il consueto Rapporto annuale della Svimez (l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) nell’anteprima pubblicata agli inizi di agosto offre una fotografia del Sud in parte gratificante, in parte inquietante. E’ graficante sapere che negli ultimi tre anni, nel periodo 2015-2017, l’economia del Sud è cresciuta ad un ritmo più veloce (Pil, prodotto interno lordo, aumentato del 3,7% ogni anno, del 5% in Campania) rispetto alla media italiana (Pil + 3,3% all’anno). E’ inquietante scoprire che adesso la crescita del Mezzogiorno e in particolare della Campania si sta affievolendo tanto che la Svimez paventa il rischio di una grande, perdurante frenata del Sud nei prossimi tempi.
Se andiamo ad esaminare i fattori che hanno sorretto finora la crescita meridionale e quelli che invece adesso la rallentano, scopriamo che il merito dell’accelerazione nel Pil va attribuito nel Mezzogiorno agli investimenti del settore privato, dell’industria energetica e manifatturiera e delle costruzioni in particolare, mentre la spesa pubblica non è aumentata a sufficienza.
In altre parole il messaggio che viene dall’anteprima del Rapporto Svimez, è che c’è spazio per dare impulso d’ora in poi alla spesa pubblica al fine di sostenere l’ulteriore ripresa dell’economia meridionale. Sarà raccolto questo messaggio? Chi, quale istituzione pubblica sarà in grado di accrescere la spesa?
Apparentemente lo spazio finanziario per una maggiore spesa pubblica nel Mezzogiorno oggi ci sarebbe e sarebbe anche assai ampio. La capacità operativa degli enti pubblici, specie degli enti locali, è invece al Sud terribilmente inadeguata. Si pensi alla programmazione dei fondi europei che, nelle grandi Regioni come la Campania e la Sicilia, sono mal governati sicchè non è pessimismo prevedere che nei prossimi tre anni, al completamento del ciclo in corso dei fondi europei, specie del Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale), si registreranno ritardi fino a perdere una quota significativa delle risorse stanziate. Come è già accaduto finora.
Spostiamoci ora a considerare altri due aspetti dell’economia del Mezzogiorno, di cui si occupa il Rapporto Svimez. Uno è la cosiddetta migrazione sanitaria, cioè lo spostamento di malati che pur risiedendo al Sud si trasferiscono negli ospedali del Centro-Nord per farsi curare e trascorrere i postumi della malattia in quelle strutture sanitarie fino alla guarigione. Il Rapporto Svimez documenta che il fenomeno interessa soprattutto i malati che dalla Campania e dalla Calabria scelgono cure e degenza in Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana. Neppure le strutture sanitarie di una piccola Regione dell’Italia Centrale come l’Umbria sono esenti dal ricevere ammalati meridionali. Un amico medico ospedaliero di Perugia, stupito del fenomeno anche perchè a suo avviso i medici napoletani sono professionalmente eccellenti e sono in grado di curare presto e bene gli ammalati residenti in Campania, ha cercato di capire i motivi della migrazione sanitaria verso l’Umbria. E ha concluso che non sono i timori dei nostri concittadini ammalati a spingerli verso l’ospedale perugino in cerca di buone diagnosi e adeguate cure mediche quanto l’insoddisfazione per le nostre strutture sanitarie della Campania, il disordine che vi regna fino alle condizioni igieniche ritenute precarie.
L’altra questione che la lettura del Rapporto Svimez solleva, è la perdita di capitale umano dovuta al trasferimento di giovani dal Sud al Nord e all’estero. Apparentemente si tratta di una perdita secca di lavoratori istruiti e professionalmente abili, che non trovando un’adeguata occupazione nei luoghi in cui sono nati e hanno studiato, decidono si spostarsi altrove, in Italia e all’estero.
A mio avviso parlare di questo fenomeno come di una catastrofe, una ferita irrimediabile che comprometterebbe l’avvenire della società meridionale, è fuorviante. Per diverse ragioni. In primo luogo chi parte a venti anni, può anche ritornare al Sud venti anni dopo avendo maturato altrove un’esperienza lavorativa, che l’ha irrobustito professionalmente. E magari può dopo avviare localmente al Sud un’attività di lavoro autonomo, d’impresa.
In secondo luogo se si vuole rappresentare il Sud come un territorio economicamente e socialmente stagnante, ci si deve interrogare anche sulle responsabilità di questo stato di cose e indicare quei gruppi che sono ai vertici della piramide sociale e al governo della cosa pubblica impedendo un’adeguata mobilità sociale e una soddisfacente crescita economica.
Spostare l’attenzione sui giovani che abbandonano il Mezzogiorno, è riduttivo e fuorviante. In un mondo che è tendenzialmente senza barriere di conoscenze, di costumi, di linguaggi, di valori, lamentare di per sè l’emigrazione dei giovani dal Sud appare un esercizio sterile, privo di fantasia e di speranza.
*da Qualcosa di Napoli