Finalmente, a sette anni dalla sua nascita e dopo numerosi ostacoli e scontri politici interni, il Partito Democratico italiano è entrato ufficialmente all’interno della grande famiglia socialista, democratica e progressista europea, riunita nel Partito del Socialismo europeo. Fin dalla sua fondazione il PD aveva vissuto questo tema come un elemento di scontro tra l’anima cattolica e popolare proveniente dalla Margherita e dalla storia della DC e l’anima di sinistra proveniente dai partiti eredi del PCI. Ovviamente, a ben vedere, questa contrapposizione aveva fin dalle origini pochissime ragioni di esistere. Nel momento stesso in cui la Margherita aveva deciso di co-fondare il PD, aveva scelto da che parte stare in Europa: con le forze progressiste e di centro-sinistra, tutte schierate, a livello europeo, nel PSE. E tuttavia, per sette anni così non è stato, al punto da alimentare dibattiti e scontri interni e perfino tratti identitari in alcune componenti di sinistra interne al PD. Ovviamente, come lo stesso Renzi ha riconosciuto durante il congresso del PSE tenutosi a Roma in questi giorni, i precedenti segretari, e in particolare D’Alema, Fassino e Bersani, avevano fatto dei piccoli passi in avanti, innanzitutto collocando parlamentari europei italiani del PD nel gruppo socialista; per, questa è la realtà dei fatti, a sciogliere finalmente questo nodo e a portare il PD nel PSE è stato il primo segretario di estrazione cattolico popolare.
Nei due anni che sono alle nostre spalle uno dei principali argomenti di contrapposizione a Renzi è stato quello di essere eccessivamente “moderato”, poco di sinistra. Molti, me compreso, hanno sostenuto che avrebbe spostato troppo verso il centro l’asse dell’unico grande partito popolare e di sinistra che esiste in Italia. Dovremo ancora vedere il nuovo segretario e Premier alla prova del Governo: saranno le scelte che farà a dirci quanto sia di centro e quanto di sinistra la sua azione di governo.
Tuttavia, questo primo atto, affrontato con una semplicità disarmante e senza tentennamenti dopo sette anni d contorcimenti, è molto indicativo e importante. E lo è anche il discorso che Renzi ha tenuto davanti alla platea dei delegati del PSE. Una nuova Europa meno tecnocratica e burocratica, più attenta allo spread sociale che a quello economico, non nemica e ostile ai piccoli produttori che la popolano, che abbia come fondamento la scuola e l’istruzione. Concetti elementari, nulla di trascendentale o epocale.
Però c’è un segno politico: la consapevolezza che queste parole avranno un senso per l’Europa se lo avranno anche per l’Italia.
Sicuramente la rapidità con cui ha agito Renzi è anche dovuta all’avvicinarsi del semestre di Presidenza italiana e delle elezioni europee. Tuttavia, se attribuiamo un senso ai simboli, ebbene il fatto che il primo suo atto rilevante da segretario sia stata la proposta di entrare nel PSE e il suo primo discorso da premier sia stato pronunciato nel congresso del PSE, ha un valore simbolico piuttosto elevato. Possiamo darne una lettura ambivalente: si tratta di uno scherzo del destino; il primo segretario che non viene dalla sinistra, ci porta finalmente nella sinistra europea. O potrebbe essere il segno dell’azione di Renzi: è un politico pragmatico, che sceglie senza tentennamenti e con velocità la strada più logica e densa di risultati. Penso che la lettura giusta sia questa seconda. Renzi ha imposto al PD una mutazione epocale, o, se vogliamo, genetica. Siamo passati dalla tastiera al touch screen, abbiamo cambiato pelle e velocità, abbiamo relativizzato il nostro tempo e la nostra storia. Tutto positivo? No. Bisognerà vedere nel medio periodo, come avrebbe detto Keynes, chi sarà morto e chi sarà vivo e, soprattutto, cosa di buono avremo fatto per l’Italia e l’Europa. Però è un buon inizio.