La forma più comune di violazione del copyright è il cosidetto ‘stream-ripping’ (32%), cioè l’utilizzo di semplici software online per registrare l’audio di video come quelli di YouTube. Al secondo posto c’è il ‘vecchio’ peer to peer, quello che fece la fortuna di Napster, usato dal 23% di chi infrange la legge, mentre al terzo c’è l’acquisizione di file trovati attraverso i motori di ricerca. La motivazione principale per l’uso illegale è ‘poter ascoltare le canzoni offline senza pagare i servizi premium’.
“La pirateria musicale è scomparsa dai media negli anni scorsi ma di sicuro non è un fenomeno passato – afferma al Guardian David Price, uno degli autori del rapporto -. Le persone amano ancora le cose gratis, quindi non ci sorprende che molte lo facciano. Ed è relativamente facile piratare la musica”.
Secondo il rapporto l’86% degli utilizzatori di musica sceglie i servizi di streaming audio o video (il 53% in Italia), ma una percentuale identica indica anche la ‘vecchia’ radio tra i dispositivi utilizzati (in Italia il 90%). Ogni settimana in media un utilizzatore ascolta 17,8 ore di musica.