Approfondimenti

STORIA DELL’ANFITEATRO FLAVIO

Puteoli fu, ad eccezione di Roma, l’unica città dell’Italia antica a possedere ben due anfiteatri.

Il maggiore  sorge a sud ovest dell’altro, più piccolo, costruito con gli assi orientati secondo i 4 punti cardinali, con una capienza di circa ventimila spettatori. Come dimensioni è il secondo in Campania(149 – 116) dopo quello di Capua ed il terzo in Italia dopo il Colosseo. Su ciascuno degli accessi principali, frammenti di un’iscrizione testimoniano che la città”colonia flavia augusta puteolana”, avrebbe realizzato l’opera a sue spese “pecunia sua”. Ciò ha fatto ritenere tradizionalmente l’edificio di età flavia, ma oggi, alla luce di nuove scoperte epigrafiche, viene proposta una diversa ipotesi che anticiperebbe la datazione dell’anfiteatro al periodo neroniano. Le iscrizioni in tal caso documenterebbero piuttosto il completamento e la decorazione del monumento in età flavia.

Un autentico gioiello, che i bravi architetti di Vespasiano, gli stessi del Colosseo di Roma, costruiscono in opus reticulatum e in laterizio.

La sua edificazione in sostituzione dell’antico edificio di età romana repubblicana, non fu troppo celere, e vide il passaggio di Nerone, Vespasiano e Tito, finchè, nel 79 d.C. potè definirsi certamente completo anche nei paramenti esterni. L’anfiteatro puteolano venne costruito là dove confluivano le principali vie della regione, la Via Domitiana e la via per Napoli.

Il colosso Flavio poteva ospitare fino a 40mila spettatori che qui si recavano per assistere ai ludii gladiatores e fu progettato con ben tre ordini sovrapposti, quattro ingressi maggiori e dodici secondari, garantendo, quindi, una accessibilità comoda ed efficiente. Come il Colosseo era provvisto di un sistema di schermatura per la luce e la calura estiva con pali e vele, abilmente mosso dai marinai di Miseno.

È stato attribuito agli stessi architetti del Colosseo, del quale è di poco successivo.
La cavea, divisa in tre livelli di gradinate, permetteva di contenere fino a 20.000 spettatori.
La struttura, di pianta ellittica, misura 147 x 117 metri, mentre l’arena ha i due semiassi di 72,22 e 42,33 metri

L’edificio si innalzava per tre ordini architettonici, l’ultimo dei quali adorno di finestre e statue. I primi due, che si presentano ad arcate, fungevano anche da supporto per la cavea, che a sua volta era suddivisa in tre parti: summa, media e ima cavea e doveva essere coronata da un portico colonnato ricco di statue. Naturalmente anche allora i posti riservati ai personaggi più importanti erano quelli più vicini all’arena, dove si collocavano senatori e cavalieri, magistrati et similia. La summa cavea, la parte più alta , si raggiungeva anche dall’esterno, salendo rampe di scale che partivano dal piano stradale, mentre ai settori più bassi si accedeva da uno dei tre ambulacri concentrici posti all’interno e che correvano lungo l’intero perimetro dell’edificio.

Al centro dell’arena si trova la fossa scenica, che comunica con i sotterranei da dove venivano sollevate le scenografie per le diverse ambientazioni di giochi e combattimenti, mentre dalle botole quadrangolari di piperno, che si aprono sul pavimento dell’arena si issavano, probabilmente con un gioco di carrucole, le gabbie con le fiere.

La parte meglio conservata è la zona dei sotterranei, dove sono tuttora visibili parte degli ingranaggi per sollevare le gabbie che portavano sull’arena belve feroci e probabilmente altri elementi di sceneggiatura degli spettacoli. Al di sotto dell’arena si intravedono ancora parte degli impianti idrici, che permettevano l’alimentazione di fontane per il pubblico. Nei sotterranei lungo un corridoio ellittico, sono disposti una serie di piccoli ambienti che dovevano ospitare ogni sorta di animali: pantere, leoni, orsi, tori, cinghiali, perfino giraffe ed elefanti, che venivano poi catapultate nel bel mezzo dell’arena, a volte per combattere tra loro, più spesso per divorare condannati a morte, o divenire vittime di venatores(cacciatori), che le trafiggevano con archi e frecce. In ogni caso erano sempre protagoniste di un gioco crudele la cui emozione più grande era la morte.

Anche San Gennaro con San Procolo (patrono di Pozzuoli)  ed i suoi compagni, nel 305 d. C. dovevano essere divorati dalle belve, le quali però aderirono ad uno sciopero della fame e si inginocchiaro devote, come immortalato nel celebre dipinto di Artemisia Gentileschi, dove ad uno sguardo attento ci si accorge che ad inchinarsi non è il re degli animali, bensì un mastino napoletano; per cui si fece un secondo tentativo chiudendo San Gennaro in una fornace ed attendendo una mezz’ora per farlo cuocere a dovere, ma all’apertura della porta il martire usci tutto elegante, mentre le fiamme avvolgevano gli astanti, come descritto nello spettacolare rame di Ribera, conservato nella Cappella del Tesoro del duomo di Napoli. Disperati i carnefici dissero, facciamo un ultimo tentativo: tagliamogli la testa e scelsero come cornice la Solfatara, come fissato nel quadro esposto nella quadreria del Pio Monte della Misericordia, dove erroneamente è assegnato a Niccolò De Simone, mentre l’autore è Carlo Coppola, come si evince dall’occhio del cavallo che dà l’impressione di fissare l’osservatore, una sorta di firma criptata dell’autore. E concludiamo correggendo un ultimo errore degli storici che affermano pomposi: la decapitazione avvenne il 19 settembre del 305, regnante Diocleziano, ignorando che il suddetto dal 1 maggio aveva abdicato alla massima carica.

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