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Dove si parla e si scrive l’italiano istituzionale?

Nel Bel Paese da tempo cerca di affermarsi una varietà della lingua nazionale funzionale alla comunicazione tra pubblica amministrazione e cittadini che dovrebbe essere parlata anche da coloro che abitano le istituzioni, amministratori e amministrativi.

Una varietà non distante dalla lingua comune, ma anche ricca di terminologie specialistiche, tante quanti sono i saperi su cui si fonda la nostra società che le istituzioni disciplinano e che utilizzano per governare.

Una varietà di lingua con termini noti ad esperti, usati per rendere certe le leggi, per evitare le ambiguità semantiche tipiche del lessico della lingua comune, ma che poi devono essere semplificati e resi comprensibili al grande pubblico da chi deve comunicare in nome e per conto delle istituzioni.

Questa varietà della lingua è l’italiano istituzionale.

Una varietà di lingua che già da tempo dovrebbe aver battuto il “burocratese”, cioè quella che più ostacola il rapporto fra i cittadini e la Pubblica Amministrazione.

L’italiano istituzionale dovrebbe debellare anche l’altra varietà della lingua scritta e parlata nelle aule del nostro Parlamento e nelle stanze di Palazzo Chigi, il “politichese”.

“Burocratese” e “Politichese” hanno in comune il suffisso nominale “-ese”, che in italiano indica “essere abitante”, che qui assume valenza dispregiativa facendo intendere che chi parla questa varietà di lingua sia un abitante di un altro mondo, quello della burocrazia e della politica. Mondi alieni, distinti e distanti dalla vita quotidiana. Lingue settoriali, come quella della medicina, che hanno il piccolo grande difetto di essere le lingue scritte e parlate da chi amministra e governa le nostre vite.

Mentre il politichese si rafforza con i “pentastellati” (anche se gli appartenenti al M5S vorrebbero denominarsi “cittadini” proprio per non segnare la distanza con la gente comune e non sentirsi “altro” da coloro che rappresentano), da tempo linguisti – e non solo – hanno dichiarato guerra al burocratese, innanzitutto. Ma il burocratese resiste in tanti nostri “avvisi pubblici”, che, come dice la parola stessa, sono testi che dovrebbero avvisare il grande pubblico sulle emergenze, divieti, ma anche opportunità di finanziamento, esiti di concorsi e quant’altro.

Resiste nonostante l’uso di nuovi media, social o conversazionali che dir si voglia, che spingono l’italiano verso forme di oralità.

Resiste anche se molti di noi neanche percepiscono più come forme linguistiche non proprie della lingua comune espressioni come “protrarsi dello sforamento dei limiti” oppure “falsificabilità del titolo”, che è una locuzione usata nei documenti per il rilascio del permesso di soggiorno.

Di certo sono frasi poco chiare e parole difficili per i nuovi italiani, per la signora Irina che assiste nostra madre, per il signor Mohamed che accompagna a scuola Abdel, il compagno di banco di nostra figlia, o per i miei vicini di casa i signori Wang. Tutti loro apprendono l’italiano parlando a lavoro o al mercato con la signora Anna, e anche parlando con don Antonio, il custode del palazzo.

Devono usare l’italiano per richiedere un permesso di soggiorno, per iscrivere i figli a scuola, per avere assistenza medica e la previdenza. Per tutto questo devono ricevere e dare informazioni alla Pubblica Amministrazione in una lingua italiana che per tutti loro – come anche per noi – è difficile da apprendere.

Ed è cos. che il burocratese diventa un vero e proprio ostacolo, diverso dai “respingimenti in mare”, espressione in politichese coniata dalla Lega, ma è pur sempre una barriera che li recinta come in un “CIE”, “Centro d’Identificazione e di Espulsione”, altro recente burocratismo introdotto nel lessico della nostra Pubblica Amministrazione.

“Cec-Pac”, “Falsificabilità del titolo”, “CIE” sono di difficile comprensione anche per i tanti, troppi italiani analfabeti di ritorno, che hanno titoli di studio presi tanto tempo fa o di recente per disperazione dei loro  insegnanti che hanno visto nella loro promozione la loro liberazione. Italiani che l’italiano l’hanno appreso in TV ascoltando Maria de Filippi più che studiando sui libri di grammatica a scuola o leggendo i giornali.

Anche loro nei processi di comunicazione con la pubblica amministrazione rischiano di essere spettatori di un monologo di Brecht e non attori dialoganti con diritti e doveri da osservare.

Ma allora dov’è quel “là” dove si parla e si scrive l’italiano istituzionale?

L’italiano istituzionale è di casa a Bruxelles, a Lussemburgo, a Strasburgo, nelle varie sedi delle istituzioni dell’Unione Europea.

Dal 2005 è attiva la Rete per l’Eccellenza dell’Italiano Istituzionale il quale obiettivo è migliorare la qualità dei testi istituzionali prodotti dalle pubbliche amministrazioni e dalle istituzioni nazionali e internazionali.

Dunque, l’italiano che si parla e scrive negli organismi dell’Unione europea è più controllato, è un “italiano istituzionale”, una varietà di lingua che nasce dalle istituzioni ma che ha l’obiettivo di essere comprensibile a tutti, nonostante il suo patrimonio lessicale ricco di terminologie specialistiche.

E fu così che l’Europa ci farà fare anche i compiti a casa d’Italiano.

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