A fine dicembre scorso, la Camera ha approvato, a larga maggioranza, il disegno di legge sull’agricoltura biologica, frutto di una sintesi di più proposte presentate da diversi gruppi politici e giacenti in Commissione dalla scorsa legislatura.
Nel testo si afferma, con grande enfasi, che la produzione biologica è un’attività che ha funzione sociale e ambientale, in quanto settore economico basato prioritariamente sulla qualità dei prodotti, sulla sicurezza alimentare, sulla tutela dell’ambiente e della biodiversità.
Se non che, al Senato, dove il DdL è ora in discussione, sono pervenute numerose critiche riassunte in tre diversi documenti – firmati da docenti universitari e scienziati – che definiscono il biologico “una risposta inadeguata alle sfide di sostenibilità, ambientale e socio-economica che l’agricoltura ci pone dinanzi”. Forte risonanza mediatica ha avuto un altro documento critico presentato successivamente da un gruppo di 213 ricercatori che hanno firmato una lettera indirizzata a tutti i senatori della Commissione Agricoltura, che è stata aggiunta al dossier in corso di istruttoria a Palazzo Madama. In quest’ultima lettera si esprime un giudizio sul disegno di legge ancora più duro: ne viene addirittura chiesto il ritiro e la ripresentazione “solo dopo una profonda modifica dell’impianto e dei suoi contenuti”.
A questi documenti, in parte pubblicati dai media, hanno fanno seguito prese di posizione di associazioni di settore, di produttori, di esperti e ricercatori favorevoli al biologico, ritenuto il metodo che più di tutti consente la sostenibilità ambientale e il rispetto dell’ambiente. Reazione scontata essendo il tema da oltre trent’anni divisivo tra le forze in “campo”. Sotto accusa, da questi ultimi, vengono messe le solite multinazionali, la ricerca prezzolata dall’industria, gli inquinatori seriali e via dicendo. Da qui un recente controdocumento con oltre 300 firme tra tecnici, esperti e prof che controbatte tutte le ragioni di scetticismo e discredito snocciolate dagli “antagonisti” al metodo biologico.
Mi sia concesso di esprimere solo una considerazione molto laica e senza pregiudizi, dopo aver letto entrambi i documenti e anche il disegno di legge. Mi riferisco unicamente ad uno solo dei dati che vengono riportati nel primo documento, non pronunciandomi sulle altre critiche mosse, facendo una riflessione molto pragmatica.
L’Italia ha una superficie coltivata di circa 13 milioni di ettari che basta a produrre solo il 70% del fabbisogno alimentare nazionale. L’autosufficienza alimentare (oggi definita più modernamente “sovranità alimentare”), infatti, è stato sempre un sogno irraggiungibile, sin dal famoso ventennio del secolo scorso, e anche tutte le forzature possibili dei processi produttivi non riuscirebbero a conseguire, almeno allo stato.
Ora è indubbio, però, che il sistema biologico, per sua natura, ha un’efficienza produttiva minore rispetto all’agricoltura convenzionale, proprio perché rinuncia a priori a ricorrere ad input energetici indispensabili per massimizzare le rese. Per mantenere la soglia attuale di fabbisogno dovremmo quindi coltivare più terre, magari togliendole a macchie boschive o ad aree protette, o tornando a coltivare terreni marginali o aree rurali periurbane dismesse, che significa più emissione di gas serra, più falde inquinate, più nitrati e soprattutto più consumo di suolo. Il che per un attimo deve farci riflettere.
Personalmente il biologico va benissimo e reca con sè alti scopi sociali ed ambientali. Ma come in tutte le cose esso non può in prospettiva definirsi l’unico metodo da dover sostenere o incentivare. Penso che oltre un limite fisiologico di diffusione esso non possa essere ulteriormente proposto (stavo per dire “imposto”), a meno che non decidiamo convintamente di dover incrementare la nostra dipendenza dall’estero in derrate alimentari.
Allo stato, ritengo che un’agricoltura “integrata”, intendendo con ciò un modello produttivo che integri in modo armonico le conoscenze e le migliori tecnologie che la ricerca scientifica mette a nostra disposizione, oltre all’agronomia e all’agroecologia, possa essere ancora un metodo sostenibile da proporre sullo scenario agricolo nazionale.
Biologico sì, ma con discernimento.
Italo Santangelo