Cultura

Inventare il territorio

Che sia la mappa a inventare il territorio e non viceversa, è una verità che gli amalfitani, grandi navigatori e geografi, dovevano conoscere bene. Infatti, sempre che, come nel celebre racconto di Borges, una carta non misuri esattamente quanto il territorio che vuole illustrare, essa evidenzierà qualcosa mettendo in ombra il resto. Interpretazioni, e non un mero rispecchiamento del rappresentato, sono alla base della cartografia su cui orientiamo il nostro abitare. Certo, a meno che non si considerino le incognite legate alle missioni nello spazio e alla geografia astronomica, la cartografia del pianeta oggi disponibile in rete, dai satelliti a google street, restituisce un’idea poco avventurosa del viaggio come scoperta.

Il mondo divenuto immagine sembra solo aspettare che il nostro sguardo si chini ad osservarlo mentre ruota sui nostri tablet interattivi.

Eppure tra le maglie di questa rete a copertura capillare, resistono ancora spazi selvaggi, indeterminati, non censiti, in cui il viaggiatore, può ancora e per fortuna perdere le coordinate.

E in fondo è là, dove ancora il possibile non è irreggimentato dalle rotte dal turismo globale, che qualcosa di altro può ancora irrompere sul reale.

Nella forma della residenza d’artista alcune fondazioni culturali nate per la valorizzazione del territorio provano a dare luogo a questo possibile, ospitando giovani artisti che fanno della ricerca e sperimentazione site-specific il loro punto di applicazione. Nei dintorni di Salerno e in costa d’Amalfi esistono luoghi poco noti, se non addirittura sconosciuti; luoghi talvolta ignoti persino agli stessi abitanti ma che, come schizzi di una natura non addomesticata, pure erano presenti nei quaderni dei viaggiatori del Grand Tour.

La Fondazione Aurelio Petroni a San Cipriano Picentino (www.fondazionepetroni.org) prima, la Fondazione Meridies a Scala (www.fondazionemeridies.it) poi, hanno cominciato un percorso su cui si potrebbe già iniziare a raccogliere in forma di studio sistematico le prime esperienze. Ne sono esempi significativi: “Viso come territorio”, il progetto fotografico e sonoro nel territorio dei Picentini, a cura di Angus Carlyle, e “That’s life – Chest’è – tutt’ ‘a vita!”, la ricerca condotta a partire dai borghi di Scala fino ai confini tracciati dalla Valle delle Ferriere, a cura di Marianna Venticinque e Gianmaria Di Pasquale.

Entrambi i progetti, risultato di tappe preparatorie diverse, sono costruiti mescolando fotografia, video e audio, in sintesi ogni volta diverse ma non meno audaci. Dopo essere stati registrati in digitale, i suoni e le fotografie dei luoghi e delle voci vengono riproposti in modi diversi, dall’ascolto in cuffia all’installazione audio-video, e mixati spesso con immagini fuori sincro. Com’è il caso descritto bene dalla nota introduttiva a “That’s life”: «Tramite un processo di rallentamento delle immagini video si è ottenuta una dilatazione temporale. In questo modo è variata la percezione dell’occhio e l’uomo appare completamente immerso nel paesaggio. Scompare di fatto la separazione visiva tra un soggetto (umano) e lo sfondo (natura). L’attenzione sottrae fuoco alla figura umana estendendolo all’intero quadro, così da dare visibilità all’invisibile. Ogni minimo movimento viene percepito come una mutazione nel campo visivo.

Una particella di tempo e di luce che si muove esattamente sullo stesso livello delle altre. Ogni cosa è amplificata nel tempo e l’uomo stesso conquista l’energia, ferma e vibrante nello stesso tempo, della vegetazione e della roccia. In apparente contrasto alle immagini, voci e suoni restituiscono l’anima della terra sgorgando come sorgenti d’acqua, inarrestabili». Non dunque semplici documenti di una ricerca a carattere antropologico, ma materiali trattati con intenti volutamente non naturalistici e mimetici. Se la natura può apparire, può farlo solo attraverso l’artificio prodotto dal montaggio e dal lavoro di ricerca nello spazio. Attraverso una strumentazione che può essere facilmente trasportabile, l’artista si muove in territori inesplorati, e cattura suoni, sguardi, storie che poi vengono analizzati, approfonditi e restituiti in una forma nuova, che a sua volta può essere osservata in luoghi diversi. Tra questi ci sono quelli della rete (blog, tumblr, flickr e social network), da cui partivamo, che ora vengono però scompaginati dal lavoro artistico.

Ciò che quindi residuava dalle maglie di google riemerge come un rimosso da altri luoghi della rete con la forza di spiazzare persino chi ha confidenza col proprio territorio. E’ ancora una volta lo sguardo dell’altro, dell’artista in questo caso, che si posa dove l’abitudine del quotidiano tende a cancellare lo stupore. Uno sguardo che non accompagna semplicemente i processi di globalizzazione, ma che di volta in volta mostra la soglia dove essa si costituisce.

Come la storia di quel contadino in “That’s life!” che esita a far passare il cavo della corrente elettrica per la sua terra. Che in quel cavo, non si trattasse semplicemente di un cavo, ma di un mondo, una civiltà e un’altra scrittura della terra, quell’uomo aveva intuito.

Quello che accade tra una mappa e l’altra è l’artista a ricordarcelo.

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