Le discussioni politiche di questo periodo, prima tra tutte quella sull’Italicum, partono dal presupposto che il nostro sistema politico sta perdendo la sua marca bipolare per approdare a un tripolarismo più o meno compiuto. Ma se di tripolarismo dobbiamo parlare, questo non va tanto interpretato come la risultanza di una segmentazione politica, quanto piuttosto di un riassetto riferito alle pratiche mediatiche, con alcuni esponenti che sembrano essere rimasti imprigionati in una logica prettamente televisiva (Berlusconi, ma non solo), altri che puntano ad accreditarsi come inflessibili paladini del web (Grillo&Casaleggio), e altri ancora bloccati in una sorta di guado (Partito Democratico in primis, che annovera la vecchia guardia da un lato e le performance web-friendly dei civatiani, ad esempio, dall’altro).
Il fatto che la politica italiana non sia ancora definitivamente uscita dal recinto espressivo della televisione è testimoniato anzitutto dal rinnovato protagonismo del suo personaggio più longevo, vale a dire Silvio Berlusconi. Gli analisti politici (e anche molti comunicatori) su Berlusconi sembrano aver commesso una sorta di “errore di parallasse”: osservando il panorama mediatico in mutamento hanno pensato che si spostasse anche l’oggetto osservato, cioè il Cavaliere. Hanno creduto cioè che Berlusconi fosse compiutamente fuori dai giochi politici perché il suo codice è da sempre considerato assimilabile al lessico delle televendite, all’over-promising, al giuramento che, in un Paese che vive in un perenne stato di sfiducia verso chi lo rappresenta, conserva una forza vitale che prescinde dalla propria realizzabilità. Una previsione forse corretta in via astratta, ma che alla prova dei fatti si è rivelata affrettata, dato che il definitivo rapasso politico dell’uomo di Arcore pare ancora di là da venire.
Cavaliere a parte, nel nostro Paese la TV (persino quella generalista dei primi sette tasti del telecomando) dimostra di avere ancora i suoi spazi di agibilità, come testimonia l’operazione che un editore di peso come Urbano Cairo ha condotto giusto un anno fa con l’acquisizione di La7 da Telecom Italia e con il conseguente arruolamento di Enrico Mentana (uomo Rai, prima, e Mediaset poi) in veste di direttore del TG di rete.
In più, crisi o non crisi, risulta comunque chiaro come, non solo per quel riguarda il dibattito politico in verità, la tv italiana continui ad agire nel completo e inflessibile rispetto delle proprie peculiarità identitarie, riducendo al minimo – fatta eccezione probabilmente per alcune scelte editoriali del bouquet di Sky – le pratiche di ibridazione dei linguaggi, e dimostrando anzi di mal tollerare i codici espressivi della rete. E ciò risulta evidente innanzitutto nel momento in cui i format e i protagonisti televisivi (e politici) si riferiscono al web: si spazia regolarmente da un atteggiamento di aperta ostilità (banalizzazione del dibattito sulla funzione dei social network, costante evidenziatura delle criticità in riferimento all’uso dei devices da parte degli utenti-cittadini, continuo accostamento tra fatti di cronaca e fenomeni di comunicazione digital) alla costruzione di proposte narrative in cui i social e il web stessi vengono, se non demonizzati, “addomesticati”, depotenziati e ricondotti a una funzione pressoché ornamentale, quindi inseriti nel palinsesto e nei programmi come si faceva col telefono al tempi dei telequiz. Se nell’Italia del confronto politico la tv fa la tv, del resto, non sempre il web fa il web.
Nel senso che molte risorse e opportunità che il dibattito in rete metterebbe a disposizione di una opinione pubblica pienamente consapevole delle funzionalità connesse alle proprie piattaforme mediatiche vengono trascurate; talvolta coscientemente, in altri casi in via inconsapevole. In via inconsapevole, per esempio, quando nello streaming dei social si dà vita a quella che in genere viene definita social tv, e cioè alla generazione di contenuti plasmati a commento di ciò che avviene nei programmi televisivi (solitamente in diretta), a indicare, non sempre ma talvolta sì, una sorta di sudditanza delle communities rispetto alla capacità di penetrazione dei formati broadcast. Come ad ammettere che, in fondo, sono questi ultimi a conservare il primato inattaccabile nel newsmaking. Coscientemente, invece, e qui veniamo a Grillo&Casaleggio, quando si fanno passare come pratiche web “di rottura” iniziative di comunicazione che hanno più a che fare con il teatro e la stampa scandalistica che con il blogging e il social networking. L’errore di molti in questo caso sta nel credere che il linguaggio di Beppe Grillo – come lui intenzionalmente spesso dichiara – rappresenti “la Rete” tout court, e che su internet non siano possibili altre forme di confronto e di costruzione di ciò che Habermas definiva “pubblica argomentazione razionale”. Ebbene, non è così. La sollecitazione dell’hate speech e l’uso muscolare del corpo e della parola nelle dirette streaming e nei comunicati non sono l’unica via possibile al dibattito in rete. In una fase di sanguinosa lotta di posizione come quella attualmente in corso tra gli esponenti degli old media e i sedicenti rappresentanti del “nuovo” è bene tenerlo a mente. Nei programmi tv, nei blog, su Twitter un altro modello di confronto è possibile: un confronto più produttivo e orientato al soddisfacimento degli interessi degli elettori.