Quando parliamo di donne nel sistema-fashion ci vengono subito in mente nomi di grandi stiliste come Donatella Versace e Stella McCartney, piuttosto che di svariate influencer; ma negli ultimi decenni le donne stanno facendo la differenza anche nel dietro le quinte della grande industria della moda. Una di loro è sicuramente Marie-Claire Daveu, che dal 2012 è a capo della strategia di sviluppo sostenibile del Gruppo Kering, la multinazionale del lusso con all’interno alcuni tra i più rinomati marchi di moda tra cui Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga e Alexander McQueen.
La moda è la seconda industria più inquinante dopo quella petrolifera, ed essendo un’industria continuamente in crescita, il danno ambientale che essa provoca non può che aumentare in maniera direttamente proporzionale al suo sviluppo. A peggiorare la situazione i social e l’iperformatività da outfit che causano; a quante di noi non è capitato di percepire un capo come vecchio solo perché lo abbiamo “postato” in più di una foto? La conseguenza di tutto questo? Anche il luxury ha le aspettative di vita del fast fashion se a determinarne l’invecchiamento è il nostro feed di Instagram. Oggi il vero lusso della moda dovrebbe essere la sostenibilità, e la sostenibilità deve essere più che mai nel nostro tempo, con l’emergenza ambientale che stiamo vivendo, il punto di partenza del processo creativo. È infatti il paradigma della sostenibilità che deve guidare la scelta delle materie prime, dei modi di produrre un dato capo, di come si vuole che sia distribuito/venduto e di come venga poi smaltito una volta che si decide di non metterlo più. Bisogna essere molto metodici in questo, in modo tale da ridurre al minimo l’impatto ambientale ad ogni stadio di processo. E soprattutto, bisogna cercare di produrre solo quello che si stima possa essere venduto. I nuovi designer abbiano talmente vissuto il tema della salvaguardia ambientale come un’urgenza politica negli ultimi anni che facciano davvero fatica a immaginare un design che non contempli la sostenibilità in una qualche forma.
Il problema è quanto interessa sapere come sono stati prodotti i capi che indossano? Sono risultati sconfortanti, che vedono gli italiani poco interessati o addirittura disattenti, quelli che emergono dal sondaggio realizzato da Mani Tese durante l’installazione interattiva “The fashion experience – la verità su quello che indossi” sottoposto a oltre 4200 visitatori e visitatrici prima del loro ingresso all’evento.Dall’indagine emerge che il 56% dei consumatori si chiede poco o per nulla in che modo siano stati prodotti i capi. C’è tuttavia un maggiore interesse per la provenienza, a cui pone attenzione il 60% del campione. Ben il 79% non acquista capi usati mentre, per quanto riguarda le motivazioni d’acquisto, solo il 35% degli intervistati cita la sostenibilità. La maggior parte delle persone compra un capo perché gli sta bene (82%), perché è economico (56%) o perché è alla moda (42%). “Quando abbiamo deciso di realizzare The fashion experience volevamo rivolgerci al grande pubblico per sensibilizzarlo sulle conseguenze sociali e ambientali della cosiddetta fast fashion, la moda ‘usa e getta’ – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese – I dati del questionario non sono per noi inattesi ma di certo neppure confortanti”.
Durante l’installazione milanese, Mani Tese ha diffuso un decalogo per iniziare un percorso di consumo consapevole anche nell’ambito della moda. L’invito è a comprare meno, scegliendo capi di qualità; non seguire le mode; evitare gli acquisti impulsivi; leggere le etichette e le certificazioni di qualità; scegliere tessuti naturali o riciclati; fare shopping in bici o a piedi; scoprire il fascino dei negozi vintage e del rimodernare i propri vecchi capi. Penso che la moda sia una forma di cultura, materiale certo, ma pur sempre di cultura si tratta. La gente ha da sempre usato la moda come mezzo per trasmettere degli ideali politici, oltre che estetici; ideali che portassero a un miglioramento della società attraverso i capi. Basti pensare all’impatto politico che ebbe il primo smoking da donna creato da Yves Saint Laurent. Inoltre la moda permette di preservare un certo tipo di artigianalità, un rapporto materico con il mondo dei più raffinati a mio avviso. Trovo che anche l’industria del fast fashion stia capendo come la sostenibilità non sia più una scelta; penso anche però che sia responsabilità del consumatore capire quanto possa durare ciò che acquista e fare scelte di conseguenza sempre più consapevoli: il futuro della moda in termini ambientali è una responsabilità collettiva.
Durante l’installazione milanese, Mani Tese ha diffuso un decalogo per iniziare un percorso di consumo consapevole anche nell’ambito della moda. L’invito è a comprare meno, scegliendo capi di qualità; non seguire le mode; evitare gli acquisti impulsivi; leggere le etichette e le certificazioni di qualità; scegliere tessuti naturali o riciclati; fare shopping in bici o a piedi; scoprire il fascino dei negozi vintage e del rimodernare i propri vecchi capi. Penso che la moda sia una forma di cultura, materiale certo, ma pur sempre di cultura si tratta. La gente ha da sempre usato la moda come mezzo per trasmettere degli ideali politici, oltre che estetici; ideali che portassero a un miglioramento della società attraverso i capi. Basti pensare all’impatto politico che ebbe il primo smoking da donna creato da Yves Saint Laurent. Inoltre la moda permette di preservare un certo tipo di artigianalità, un rapporto materico con il mondo dei più raffinati a mio avviso. Trovo che anche l’industria del fast fashion stia capendo come la sostenibilità non sia più una scelta; penso anche però che sia responsabilità del consumatore capire quanto possa durare ciò che acquista e fare scelte di conseguenza sempre più consapevoli: il futuro della moda in termini ambientali è una responsabilità collettiva.