“Alla base di tutto c’è stato e c’è il tempo. L’età che avanza e che non torna indietro se non con la memoria che, però, anno dopo anno, diventa sempre meno nitida e allora l’unica cosa che resta da fare è lasciarsi andare”. Le parole di Martin Scorsese ipnotizzano e quando le pronuncia, nell’ambiente scende un silenzio che non è mai dovuto a imbarazzo, ma ad attenzione e partecipazione. Quel grande regista Premio Oscar (per The Departed) con all’attivo una sessantina di titoli se si considerano anche i documentari e i corti, ha ancora molto da dire e oggi che è il suo giorno alla quattordicesima Festa del Cinema di Roma, lo ha dimostrato ampiamente. Puntualissimo, si presenta all’incontro con il sorriso sul volto. Ha saputo che il suo “The Irishman” – prodotto da Netflix, dal 4 al 6 novembre anche nelle sale distribuito dalla Cineteca di Bologna, presentato in esclusiva nella Capitale – è piaciuto molto alla stampa che lo ha accolto con lunghi applausi finali. Tre ore e mezza di film non sono affatto poche, ma tutti gli attori, dalla comparsa ai grandi interpreti – Robert De Niro, Joe Pesci, Al Pacino, Harvey Keitel, Bobby Cannavale e Anna Paquin – sono perfetti in quei ruoli, uomini soprattutto che non sono mai mostrati affascinanti o come eroi”, spiega Scorsese, “sono dei cattivi punto e basta che il pubblico detesterà”. Il film, un inno alla vita e al cuore umano nella sua contemporaneità, ripercorre la storia di Frank Sheeran (De Niro), ormai sulla sedia a rotelle in un ospizio di Filadelfia con i capelli bianchi e la fronte stempiata. È stato un camionista irlandese e un veterano della seconda guerra mondiale, divenuto poi il braccio destro della mafia italiana negli anni Cinquanta, oltre ad essere un pezzo grosso del sindacato dei camionisti il cui leader, Jimmy Hoffa (Pacino), scomparve e non fu mai più ritrovato. Prima di morire, Sheeran raccontò di averlo ucciso lui per conto della famiglia Bufalino, come ci viene a sua volta raccontato nel libro I heard you paint houses: Frank “The Irishman” Sheeran & Closing the Case on Jimmy Hoffa di Charles Brandt (The Irishman è il titolo in italiano, pubblicato da Fazi), da cui il film è stato tratto.
“Con Bob (De Niro, ndr) volevamo fare un film insieme, l’ultimo era stato Casinò nel ’95” – racconta Scorsese. “Negli anni abbiamo cercato un personaggio che ce lo consentisse, avevamo diversi progetti ma alla fine mi consigliò di leggere il libro e, prima ancora, nel raccontarmi la storia di Frank, Bob si è emozionato a tal punto che ho capito che aveva molto da dire su di lui. Entrambi avevamo a cuore alcuni temi che potevano essere sviluppati bene in questa storia: il tempo che passa, l’invecchiare, l’amore, il tradimento e la morte”. “Il vero tema principale del film, continua, non è affatto il crimine, ma il tempo. Certo, c’è un senso di melanconia che pervade la storia perché, per quanto si possa accettare la propria morte, Frank è rimasto solo, ha tagliato i ponti con la propria famiglia. Entrambi ci siamo trovati a nostro agio con questo concetto, sul dispiegamento di una vita, e questo è stato l’approccio con cui lo abbiamo fatto. E’ un film per noi stessi”.
Se con De Niro e Joe Pesci, Scorsese aveva già lavorato, non lo aveva mai fatto con Al Pacino. “L’ho conosciuto negli anni Settanta – racconta – me lo presentò Francis Ford Coppola, poi intorno agli Ottanta avremmo dovuto fare un film su Modigliani. Lui ha lavorato con grandi registi ed è stato De Niro a propormelo per il ruolo di Hoffa, loro due si rispettano come attori, e sentivano che stavano facendo qualcosa di speciale e unico. Con De Niro, invece, anche se sono passati ventitré anni dall’ultima volta che abbiamo lavorato insieme, non c’era neanche bisogno di parlare, ho preferito per lui un approccio quasi nudo al personaggio”. Insieme hanno aspettato che qualcuno desse loro i soldi necessari per realizzarlo. Nessuno voleva, poi è arrivata Netflix che gli ha permesso a Scorsese di fare il film che voleva – “con i miei amici” – senza dover ricorrere ad altri attori per impersonare loro da giovani, ma utilizzando la tecnologia CGI (la computer-generated imagery, ossia le ‘immagini generate al computer’, ndr), dandogli anche tutto il tempo di cui aveva bisogno per girare.
Il regista, ne approfitta per tornare sulla polemica nei confronti dei film tratti dai fumetti nata di qualche tempo fa: “Un regista non hai mai totalmente il controllo sul modo in cui verrà visto il suo film, se in tv o su un iPad. Quello che è nuovo sono le infinite possibilità del cinema: la realtà virtuale, l’ologramma e altro…non bisogna essere rigidi su questo, anche se sono convinto che la soluzione migliore sia sempre la sala cinematografica come sono anche consapevole che il film prima deve essere fatto. La chiave di tutto secondo me è che i cinema continuino a sostenere i film di narrazione, mentre oggi le sale si stanno trasformando in parchi di divertimento. I film dai fumetti vanno benissimo ma non credo che i nostri giovani debbano pensare che questo sia il vero cinema cinema.”