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L’Alzheimer non fa più paura. Ricercatori italiani scoprono molecola che blocca la malattia

” Il momento più terribile è stato quando papà tra una frase sconnessa e l’altra ha trovato i miei occhi e mi ha detto “sono finito”.
Mi sono sentita morire, perché in quel momento ho percepito la sua disperazione pura.
Uno degli ultimi momenti di lucidità che spero, egoisticamente, non tornino più.
Lui, orgoglioso com’era, un uomo buono, tutto d’un pezzo, non avrebbe mai accettato di vedersi così.
Beata incoscienza, papà resta nel tuo mondo!
Mi adopererò per fargli vivere questi anni nella tranquillità, rassicurandolo con le carezze che trasmettono più amore di qualsiasi parola.
Le carezze le percepisce, stringe la mano mia e di mia mamma con forza quando gliele porgiamo. A volte le cerca… che bello quando ancora ci cerca…
Questo mostro di malattia ce lo sta portando via giorno per giorno, ci scivola tra le mani e non c’è modo di trattenerlo… e mia mamma non si dà pace.
Lei ha il compito più duro, si prende cura di lui giorno e notte. Uno scricciolo di donna forte come una quercia. Un giorno piange, un giorno è felice perché “papà ha mangiato tutto!” come se s’illudesse che possa migliorare.
Spero che papà senta il nostro affetto…. Mi auguro che non percepisca il nostro dolore.” Questo è il contributo di Laura, un’avvocato, una donna di trentatré anni, ma soprattutto una figlia, che ci ha raccontato del suo dolore. Un dolore grande che si amalgama con un altro sentimento, la rabbia.  Perché verso l’Alzheimer, la malattia del secolo, si prova odio, nessuno immagina nella sua vita di dover diventare uno sconosciuto agli occhi della persona che più si ama, soprattutto quando la persona in questione è il tuo papà.  La demenza di Alzheimer ha, in genere, un inizio subdolo: le persone cominciano a dimenticare alcune cose, per arrivare al punto in cui non riescono più a riconoscere nemmeno i familiari e hanno bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici.

La demenza di Alzheimer oggi colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si stimano circa 500mila ammalati. Una malattia che fa paura, perché non la si conosce ancora del tutto e perché riduce proprio il riconoscimento delle persone, del mondo che ti circonda e persino di te stesso. Con l’Alzheimer potresti però trovarti ad averci a che fare, magari perché ne viene colpito un tuo familiare o qualcuno che ti è vicino. Al momento è infatti la più comune causa di demenza tra la popolazione anziana: colpisce all’incirca il 5% degli over 65 e il 20% di chi ha già superato gli 85 anni. Più o meno la metà dei casi di demenza senile sono dovuti a questa patologia. E purtroppo non esiste una cura né per una guarigione completa, né che consenta di rallentare la malattia in modo significativo. Scoperta nel 1906 dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer, ancora oggi non si ha un’idea precisa riguardo le cause. Nel corso del tempo sono state formulate una serie di ipotesi e la ricerca continua a fare progressi, ma questa malattia si sta rivelando davvero una sfida per la medicina. Così come la è per caregiver che si devono occupare di una persona che ne è affetta. Ogni giorno può essere diverso, ci si può dimenticare qualcosa in più, da come si chiama la propria moglie a come si mangia. L’umore viene naturalmente alterato e può quindi accadere che si continui a ripetere lo stesso nome o lo stesso suono, che si mettano in atto dei comportamenti aggressivi o che si rimanga del tutto apatici nei confronti degli stimoli esterni.

Se sei dall’altra parte, ti ritroverai costantemente di fronte a un dubbio: “cosa dovrei fare questa volta? Cos’è meglio per la sua salute e il suo benessere?“. Naturalmente non potrai affrontare tutto questo da solo, ma è fondamentale l’aiuto di un medico e di tutti gli strumenti che il sistema sanitario nazionale mette a disposizione.  Come anticipato, purtroppo non si può né guarire, né migliorare, ma solo cercare di rallentare i sintomi e migliorare la qualità della vita di un paziente, che risulterà comunque piuttosto compromessa. Purtroppo, si tratta ancora di un disturbo che porta alla morte, di solito nel giro di 8 o 10 anni da quando si è ricevuto la diagnosi. In questo buio totale però, sembra essere arrivato uno spiraglio di luce.

Fermata Alzheimer

Scienziati italiani hanno scoperto una molecola in grado di bloccare il morbo di Alzheimer alle fasi iniziali. La molecola, un anticorpo chiamato scFvA13-KDEL o più semplicemente A13, favorisce il ‘ringiovanimento’ del cervello catalizzando la neurogenesi, ovvero la produzione di neuroni, un processo che contrasta le fasi precoci della più diffusa patologia neurodegenerativa. Al momento i risultati sono stati ottenuti solo in vitro e su modelli murini (topi) geneticamente modificati, tuttavia grazie ad essi sono state aperte nuove porte a possibili percorsi diagnostici e trattamenti del morbo di Alzheimer, una malattia che attualmente colpisce 47 milioni di persone nel mondo. Entro il 2050 si stima ci saranno ben 115 milioni di malati.

A scoprire questo virtuoso meccanismo nel cervello dei roditori è stato un team di ricerca italiano coordinato da scienziati della Fondazione EBRI (acronimo di European Brain Research Institute) ‘Rita Levi-Montalcini‘, il cui istituto fu voluto proprio dalla neurologa e accademica torinese, vincitrice del premio Nobel per la Medicina nel 1986. Hanno collaborato ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre; dell’Istituto di Biologia Cellulare e Neurobiologia di Roma del CNR (Conisglio Nazionale delle Ricerche); della Fondazione IRCSS Santa Lucia e della Scuola Normale Superiore di Pisa. Gli scienziati, coordinati da Giovanni Meli, Raffaella Scardigli e Antonino Cattaneo, durante la ricerca si sono concentrati su specifici topi transgenici (identificati con codice Tg2576) a circa un mese e mezzo di età, considerata un’età asintomatica che precede l’insorgenza dell’accumulo delle proteine di beta amiloide e il processo di neurodegenerazione.

Introducendo nel cervello dei topi geneticamente modificati l’anticorpo scFvA13-KDEL, gli scienziati sono riusciti a riattivare la neurogenesi a livelli quasi normali. Ma come agisce questa molecola? In parole semplici, essa riesce a eliminare sostanze tossiche (chiamate A-beta oligomeri) prodotte dalle proteine “appiccicose” di beta amiloide, che assieme ai grovigli di proteina tau sono intimamente connesse alla neurodegenerazione. L’anticorpo ha dato un riscontro positivo contro gli aggregati tossici anche nei test in vitro. Grazie a questa procedura gli scienziati italiani sono riusciti a contrastare quasi del tutto gli effetti negativi del morbo di Alzheimer allo stadio iniziale. Naturalmente si tratta di risultati ottenuti in laboratorio sui topi, dunque la strada sarà ancora molto lunga prima di poter passare ai primi, eventuali studi clinici, cioè sull’uomo. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sull’autorevole rivista scientifica specializzata Nature Cell Death and Differentiation.

 

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