«E’ uno sbaglio di persona, io non sono Bruno Carbone, mi chiamo Domenico Alfano». Un caso che sta diventando sempre più un caso internazionale. E’ quello dell’arresto a Dubai di Bruno Carbone, poi smentito, e dell’appello lanciato da Domenico Alfano che in una lettera dettata al telefono ha dichiarato di essere detenuto ingiustamente da 28 giorni. Alfano, 40 anni, è originario del quartiere Stella, vive a Santiago de Veragues nella Repubblica di
Panama, dove gestisce un ristorante e una pizzeria. Era partito con la famiglia (moglie
colombiana e 2 figli di 13 e 9 anni) per Dubai per trascorrervi il Natale e Capodanno.
L’uomo, difeso dall’avvocato Giacomo Pace, ha spiegato cosa è accaduto:
«Mi chiamo Domenico Alfano, non sono Bruno Carbone, possiedo una pizzeria a Panama Il 18 dicembre siamo partiti da Panama per Dubai, per una vacanza di 30 giorni – dice – Dopo aver fatto una sosta in Francia, abbiamo continuato il nostro viaggio e siamo arrivati a destinazione a Dubai alle 4:25 ora locale, con il volo Air France 658. Alla porta dell’aereo due persone mi chiedono il passaporto e mi chiedono se il mio nome sia Domenico Alfano, quindi un nuovo invito a seguirli insieme alla famiglia. Chiedo spiegazione e di capire cosa stesse accadendo. Mi hanno separato da mia moglie e dai figli. Mi hanno portato in un ufficio, cercando di farmi capire gli ho presentato un biglietto da visita del mio ristorante. A quel punto l’uomo che aveva prelevato ha scattato una foto e se’è andato. Mi hanno messo in una cella e mi hanno fatto altre foto. Due o tre ore dopo aver atteso, mi hanno messo le manette e mi hanno trasferito in prigione in una cella fino a notte. Mi hanno interrogato con un cellulare dotato di traduttore istantaneo. Mi hanno mostrato le foto di due uomini con due nomi e cognomi diversi dicendo che sono entrambe esponenti della criminalità e dicono che mi stanno cercando. Avevo capito che sì trattava di uno sbaglio di persona e che avrei risolto il problema presto. Hanno preso le impronte digitali e fatto un piccolo prelievo di sangue per un test del Dna. Mi hanno detto che posso essere calmo che se non sono io il ricercato e che la risposta dall’Italia sarebbe arrivata presto e che mi avrebbero rilasciato. Oggi, 16 gennaio 2020, sono ancora qui, rinchiuso da 28 giorni. Tutta la mia vita sta finendo, tutte i miei impegni di lavoro stanno andando a rotoli, il danno psicologico alla mia famiglia è indescrivibile, scrivo questa lettera in modo che tutti sappiano la verità sull’incubo che sto vivendo».