“Non so dire come abbia contratto il Covid 19, ma sono stato tra i primi casi a Cremona e ho pensato di morire”. Fortunatamente ce l’ha fatta e può raccontare a Tgcom24 la sua esperienza Carlo Giussani, da 35 anni tecnico radiologo all’ospedale di Cremona. “Mi sono ammalato in contemporanea con il paziente 1 di Codogno e in quegli stessi giorni della zona rossa del Basso Lodigiano, Cremona viveva una situazione simile”, ricorda. “Io sono un sopravvissuto, ma la realtà – ammette – è che sembra di svuotare il mare con il cucchiaino”. E ritorna ai giorni di fine gennaio con quei troppi casi di polmoniti anomali tra giovani: “Noi addetti ai lavori ci chiedevamo cosa stesse accadendo”.
Come sta oggi, a quasi un mese da quel tampone positivo?
“Sono in netta ripresa, ancora un po’ debole per le terapie; certo, l’essere in quarantena non aiuta, ma lo siamo tutti. Dopo 15 giorni di ricovero tra infettivologia e pneumatologia, sono stato dimesso e a casa dovrò restare per ancora dieci giorni, in attesa di altri esami e degli ultimi due tamponi che devono dare esito negativo”.
L’essere per lavoro dall’altra parte della barricata e ritrovarsi come paziente può averla aiutata?
“No, perché anche i tecnici hanno conoscenze relative solo alla loro specialità e quando sono malati si comportano come tutti i malati, vogliono sapere. A me, poi, veniva detto ancor meno di quanto volessi, perché per tutti dovevo già conoscere la situazione. Comunque, a un certo punto, devo dirlo, ho pensato anche di morire: rimanere sempre cosciente anche nei giorni più duri di ventilazione forzata non aiuta. Perché passi il tempo a pensare, a riflettere anche solo sul fatto che respiri e che quel respiro può essere l’ultimo”.
A Cremona, dove ancora oggi la situazione sanitaria è drammatica, è stato tra i primi ad ammalarsi, in contemporanea con il paziente 1 di Codogno. Sa come può essere stato contagiato?
“Non ho saputo dirlo neanche alla Asl, né mi è stato facile risalire a tutti i miei contatti: in Radiologia siamo un esercito di 60-70 addetti, in più mi sposto per i reparti a fare lastre. Mi sono accorto che avevo sintomi influenzali ed era strano perché avevo fatto il vaccino. Mi hanno sottoposto a tampone perché ero stato a contatto con un paziente oncologico di pneumatologia che era morto con coronavirus. Ma non collego il mio contagio a lui; non ho mai avuto problemi respiratori né soffro di altre patologie. A un certo punto ho pensato che fosse stata la mia compagna ad ammalarsi per prima. Non so davvero, anche perché nel mio reparto comunque ero l’unico positivo in quei giorni e, dopo, l’epidemia non c’è stata perché siamo stati messi subito sotto controllo”.
La sua influenza le sembrava comunque strana. Altri segnali?
“Già a fine gennaio avevamo notato polmoniti atipiche in giovani sottoposti a lastre. Sono 35 anni che lavoro in radiologia e non ricordavamo una tale concentrazione. Era cosa anomala in tempi non sospetti e il nosocomio si è mosso per tempo riorganizzando spazi e forze lavoro”.
Cosa le è pesato di più?
“In quei 15 giorni di ricovero sei subito da solo e nei 4-5 centrali in cui me la sono vista brutta avrei voluto stringere la mano di chi amo. In pneumatologia, poi, avevo un compagno di stanza ma eravamo entrambi con la maschera della respirazione forzata, quindi alla fine ci siamo solo salutati. Ho pensato tanto, in quei giorni; è angosciante sentire solo il proprio respiro, le macchine in azione… Continuo ad avere informazioni dai miei colleghi e mi sono convinto che il virus non guarda davvero in faccia nessuno”.
Cosa si augura ora?
“Che si trovi il vaccino. A questo ora bisogna pensare. Nel mio isolamento personalmente ho potuto riapprezzare quello che della vita avevo; ho ricominciato a leggere libri, ad ascoltare la radio. Non lamentatevi di stare a casa, godetene prima che si ricominci a fare i criceti. Restiamo a casa per salvarci: quello che sta accadendo a Bergamo accade anche a Cremona e può accadere ovunque”.