I militari che bruciano come se fossero torce umane, la disperazione, la paura, il fischio di un proiettile appena sbocciato dalla canna nichelata di un ordigno esplosivo. La quarta parte de La Casa di Carta inizia esattamente dove si era conclusa la terza: nessun convenevole e nessun riassunto a introdurne l’azione. Se c’è una cosa che la banda ha insegnato al suo pubblico è che il tempo è prezioso e che ogni granello di sabbia è fondamentale per la riuscita del piano, specie quando una di loro, Nairobi, lotta per rimanere in vita con il sangue che le sgorga dalla bocca e un bussolotto conficcato sotto la settima costola.
Chi è fan della serie, che torna su Netflix a poco più di un anno dall’ultima volta, apprezzerà l’adrenalina e l’urgenza di far fronte all’imprevisto, i nervi tesi per far sì che tutto fili liscio nonostante ne siano successe di tutti i colori. Ognuno è, infatti, di fronte ai propri demoni, veri o presunti che siano.
Il Professore corre in mezzo alla foresta convinto che Lisbona sia morta quando la donna è in realtà viva e sottoposta a un interrogatorio estenuante della Sierra nel disperato tentativo di farla confessare. Tokyo si impegna a prendere le redini dell’operazione quando Palermo dà i primi segni di cedimento e tutti sembrano ignari del fatto che un nemico silenzioso sia proprio tra loro, pronto ad accedere alla panic room sepolta nelle viscere della Zecca di Stato per schierare tutto l’armamentario necessario per schiacciarli uno a uno, come se fossero delle mosche. Le atmosfere rimangono pressapoco quelle delle precedenti stagioni, con le luci verdine e quarzate del presente e i toni caldi e aranciati dei flashback, quando il Professore metteva a punto i dettagli del piano e il suo caro amico Berlino si sposava sulle note di Ti amo di Umberto Tozzi e Centro di gravità permanente di Franco Battiato. Nell’ultima intervista, Álvaro Morte ha detto che, se gli sceneggiatori avessero saputo dal principio che la storia non si sarebbe interrotta con la seconda parte, molto probabilmente avrebbero cercato soluzioni narrative alternative a quelle attualmente in corso d’opera e mai come questa volta potremmo essere più d’accordo. Alcune scene, vedi quella del toro, sembrano davvero troppo fantasiose per poter essere prese sul serio, e altre, come quella della partita di calcio tra le mura del monastero, suscitano tenerezza per l’impatto estetico che cercano di trasmettere allo spettatore.