Usa un’immagine chiara e inequivocabile, il professor Massimo Galli, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano per spiegare a “Vanity Fair” cosa potrebbe succedere, se non usiamo tutte le precauzioni necessarie, per la ripartenza «Avete presente Alien? Adesso l’abbiamo imprigionato. Ma se lo rimettiamo in libertà potrebbe succedere di tutto». Usa un’immagine chiara e inequivocabile, il professor Massimo Galli, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano per spiegare cosa potrebbe succedere, se non usiamo tutte le precauzioni necessarie, nella fase due, quella che comincerà il 4 maggio.
Professore, senza tamponi e senza tracciamento, come passeremo nella seconda fase?
«È un problema che si dipanerà nelle prossime settimane.Sicuramente questa situazione avrebbe meritato una miglior definizione. Prima abbiamo chiuso tutti in casa con un sistema rude ed efficace che ha dato dei risultati e adesso mandiamo tutti a lavorare con guanti, mascherine e distanziamento sociale. Si fa presto, ma si pecca di un eccesso di rischio».
Che cosa potrebbe succedere?
«Il punto è che molte persone che hanno preso l’infezione e non hanno sviluppato sintomi importanti sono rimaste chiuse nelle case. Ma queste persone l’infezione potrebbero continuare ad averla e quando usciranno potranno ancora diffonderla. Le aziende dovrebbe perlomeno raccogliere la storia medica attuale e pregressa dei propri lavoratori. Come farlo? A questo non è stata data risposta».
Lei che cosa suggerisce?
«C’è nella comunità scientifica una forte contrapposizioni tra chi è favorevole e chi contrario ai test sierologici rapidi. Io sono tra quelli favorevoli. Chi propone quelli con il prelievo venoso, non ci spiega però come e quando potranno essere realizzati. C’è un tema organizzativo, di costi e di tempi molto complesso da gestire. I primi potrebbero perlomeno darci un’indicazione di chi non ha mai avuto contatti con l’infezione e può rientrare tranquillamente nel mondo del lavoro e di chi invece è stato contagiato. I positivi poi andrebbero sottoposti a tampone per capire se sono ancora contagiosi».
Ma, soprattutto in Lombardia, sembra molto complesso avere un tampone?
«Credo ci sia stata problema quasi ideologico. In una Regione in cui siamo stati capaci di moltiplicare rapidamente i posti in terapia intensiva e di creare (a prescindere di qualsiasi valutazione sulla sua utilità reale o meno) un ospedale in tempi cinesi, è incredibile che non si sia riuscita a moltiplicare la nostra capacità diagnostica. In questo modo non si è potuto o non si è voluto dare risposta a molte persone che aspettavano un test per confermare la presenza o meno del virus. Speriamo che con il ritorno in azienda questo sia possibile. Qui c’è qualcuno che si è voluto ostinare su una strategia sbagliata fin dall’inizio. Adesso ci tocca desclerotizzare tutto il sistema».
Che cosa ne pensa della possibilità di visitare i congiunti, quindi anche i nonni, persone che fino a ieri ci avevano indicato come più fragili e da proteggere?
«Mi sono già espresso in questo senso quando mi sono apertamente schierato contro la riapertura dei luoghi di culto. Le chiese sono frequentate, non solo, ma soprattutto da persone più anziane, che come tali vanno tutelate. Per chi crede penso che questo sia un momento di grande rafforzamento spirituale, ma i bisogni spirituali appunto possono essere soddisfatti anche in altri luoghi. Lo stesso discorso vale anche per le visite ai congiunti più anziani. Sbaglia chi crede che i bambini, poiché hanno meno sintomi, non si infettino. I bambini si infettano e sono anche dei grandi moltiplicatori dell’infezione. Che è poi anche la ragione per cui non è opportuno in questo momento riaprire le scuole. È chiaro che gli italiani non ne possono più. Ma bisogna fare molta attenzione. E ai nonni ancora di più».
Che cosa bisogna fare allora?
«Bisogna ricominciare con tutte le dovute cautele a essere economicamente produttivi per non morire di né di Covid, né di fame. Ma per tutto il resto bisogna avere pazienza. Non dobbiamo mai dimenticarci che questa mala bestia è entrata nel nostro Paese con un’unica penetrazione. Il virus è passato da Shangai a Monaco e da Monaco a Codogno. E dopo aver potuto girellare libero per tre settimane ha fatto lo scempio che conosciamo. Ma è bastata un’unica penetrazione. Al momento non ci sono prove scientifiche che sia andata diversamente. Chi dice che il virus era già in Italia a dicembre non ha basi scientifiche su cui affermarlo. Quando è arrivato è esploso. Questo ci fa capire che se lo si libera di nuovo può riespoldere con la stessa violenza».
Almeno da un punto di vista farmacologico abbiamo fatto dei passi in avanti?
«Abbiamo capito che quasi nulla di quello che abbiamo utilizzato serve. Il virus ha tre fasi. La prima del contagio virale nella quale forse potrebbe servire il Remdesivir, ma non abbiamo ancora studi che possano affermarlo con certezza. Poi c’è la risposta autoimmune nella quale scoppia la tempesta di citochine, nella quale utilizziamo farmaci sintomatici ma che non agiscono sul virus e poi poi c’è la terza che è quella in cui avviene la distruzione del polmone. . Stavamo studiando alcuni protocolli farmacologici che però per assenza di pazienti forse non potremo concludere. Per fortuna».