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Bambini e covid-19: tutto quello che c’è da sapere

Qual è il ruolo dei bambini nella diffusione della COVID-19? È una delle domande che più tormenta gli epidemiologi, nelle settimane di graduale allentamento dei lockdown: dalla risposta dipende la possibilità di riaprire le scuole in sicurezza. Di certezze, sul tema, ce ne sono poche. La prima è che gli under 18 rappresentano una piccola frazione del totale dei contagiati: in Paesi duramente colpiti dalla pandemia come Italia, Cina e Stati Uniti, bambini e teenager costituiscono meno del 2% dei positivi. Ma da qui in avanti le opinioni degli scienziati si dividono, tra chi pensa che i più piccoli siano da considerare una popolazione a basso rischio, più protetta dall’infezione, e chi ritiene che la contraggano nella stessa misura degli adulti, soltanto con esiti meno gravi.

Chi sposa questa seconda scuola di pensiero ricorda che – con le scuole chiuse in gran parte del mondo – i bambini sono stati meno esposti degli adulti al coronavirus SARS-CoV-2 (perché non vanno a fare la spesa, non sono costretti a lavorare, non hanno visto i nonni né i coetanei). I bambini sono anche meno spesso sottoposti a tampone, perché se contagiati dalla COVID-19 hanno in genere sintomi più lievi. Gli altri virus respiratori circolano in modo marcato nelle scuole e negli asili. Se il SARS-CoV-2 facesse altrettanto, nelle prossime settimane si potrebbe osservare un incremento di casi nei Paesi (come Germania e Danimarca) che hanno già riaperto le scuole.

Come ricorda un articolo su Nature, gli studi scientifici su bambini e COVID-19 non hanno ancora dato risposte esaustive su due questioni in particolare: quella della suscettibilità di questa popolazione al virus, e quella della loro capacità di veicolare il contagio. Un’indagine pubblicata il 27 aprile sul Lancet Infectious Diseases e condotta nelle famiglie con casi di COVID-19 a Shenzhen, in Cina, ha trovato che i bambini sotto i 10 anni corrono gli stessi rischi degli adulti di essere infettati, ma manifestano sintomi più lievi. Se l’ipotesi fosse confermata, vorrebbe dire che i bambini possono veicolare silenziosamente l’infezione.

Ma altri studi svolti in Corea del Sud, Cina, Italia e Islanda hanno invece riscontrato una minore incidenza della COVID-19 nei più giovani. Una ricerca pubblicata su Science che ha analizzato i dati della provincia cinese dello Hunan ha trovato che per ogni under 15 positivo al virus ce ne erano quasi 3 con COVID-19 tra i 20 e i 64 anni di età. Oltre i 15 anni i dati sono meno netti e la facilità di contagio potrebbe avvicinarsi a quella degli adulti.

Ancora più confusi sono i dati sulla facilità con cui i bambini positivi alla COVID-19 trasmettono l’infezione. Uno studio su un focolaio di casi nelle Alpi francesi ha descritto il caso di un bambino di 9 anni con infezione in corso che aveva frequentato tre scuole e un corso di sci mentre aveva sintomi evidenti della malattia, senza però infettare nessuno: uno scenario inimmaginabile per un adulto.

Secondo un’altra ricerca australiana citata da Nature, che ha analizzato dati su diversi Paesi, inclusi alcuni (come Singapore) che non avevano chiuso le scuole, i bambini sono raramente i primi a introdurre il virus in famiglia: nelle situazioni studiate era successo soltanto nell’8% dei casi, diversamente da quanto accaduto durante le epidemie di influenza aviaria (in cui i piccoli avevano “portato” il virus in casa nel 50% dei casi).

Anche questi studi hanno però diversi limiti: le scuole spesso chiuse per i lockdown potrebbero spiegare questa minore capacità di trasmettere la COVID-19, ed è poi molto difficile capire, all’interno di una famiglia, chi sia rimasto contagiato per primo. Altre ricerche dimostrano che i bambini con COVID-19 ospitano la stessa quantità di RNA virale degli adulti – non è chiaro, però, che ruolo abbia l’RNA virale nell’infettività del paziente.

Ci sono ancora pochi dati sulla trasmissione della malattia da nuovo coronavirus dalle scuole al resto della comunità, anche se alcuni dati preliminari raccolti nella regione australiana del New South Wales la darebbero per limitata. La riapertura delle scuole – con tutte le regole di distanziamento e igiene necessarie – dovrebbe essere accompagnata da studi epidemiologici sul comportamento del virus anche all’interno della dimensione scolastica.

Su un fatto gli studi sembrano convergere: i bambini e gli adolescenti sembrano mettere in campo una risposta immunitaria più appropriata contro la COVID-19, abbastanza decisa da combattere il virus ma non tanto violenta da produrre tempeste di citochine (proteine che fanno da segnali di comunicazione fra le cellule del sistema immunitario) che finiscono per danneggiare gli organi dall’interno. La maggiore esposizione dei bambini ad altri, più innocui coronavirus potrebbe creare una sorta di “protezione incrociata” contro il SARS-CoV-2, ma è solamente un’ipotesi e neanche troppo solida: infatti, anche i neonati sembrano più protetti dalla COVID-19. Nei più piccoli, i polmoni potrebbero contenere un numero ridotto di recettori ACE2 (quelli presi di mira dal virus): ma per confermare l’ipotesi servirebbero campioni di tessuto e procedure invasive per prelevarli. Per il momento, non abbiamo certezze.

 

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