La cosa più strana è che sembra tutto normale. Le persiane aperte, quelle chiuse, i capannoni brutti, gli ipermercati immensi, le villette colorate, i bambini col pallone dietro i cancelli. Il dolore non ha odore e non ci sono macerie a testimoniarlo, e anche se ci fossero, da queste parti la gente le spazzerebbe dentro casa, e chiuderebbe la porta. Eppure, attraversando in macchina il pezzo di Lombardia dove la pandemia è cominciata e sembra non volersene andare, si ha una sensazione come di vento forte, di coda di tempesta. Questo articolo è stato pubblicato sul numero speciale 20-21 di Vanity Fair diretto da Paolo Sorrentino.
All’imbocco della strada per la Val Seriana un cartellone pubblicitario invita a resistere, c’è scritto: Berghem mola mia, non mollare, ma più che un’esortazione sembra un confine. Hic sunt leones, scrivevano gli antichi per segnare, sulle mappe, la fine del mondo. In queste valli un pezzo di mondo è finito per davvero: la morte è passata e si è portata via un paio di generazioni. In qualcuna di queste case è entrata, ed è rimasta a fare i conti con tutti, come se non ritrovasse la strada per uscire. Lo ha fatto con i fratelli Ravasio di Gazzaniga: Sandrino stava al pian terreno, Liliana e Celestina al secondo, Virgilio al primo. Sono morti tutti e quattro, insieme con Rosa, la moglie di Virgilio. Solo Maria Vittoria, la sorella maggiore – 82 anni – è sopravvissuta, incredula.
Iviano, 50 anni, è il figlio di Virgilio e Rosa. Ha perso i genitori a tre giorni di distanza l’uno dall’altro, ricoverati nello stesso ospedale, ma in reparti diversi: non si sono mai più visti, nemmeno per sbaglio. Né lui ha più potuto riabbracciarli e, dice, «Questa è una cosa che fa male». Virgilio aveva fatto il vigile, Rosa l’infermiera, e la loro casa racconta di molto altro: le radio disseminate in ogni stanza, i vini in cantina, le vecchie chiavi appese alle pareti, i rotoli di stoffa e le conchiglie di Rosa, ricordo dei viaggi che avevano cominciato a fare negli ultimi vent’anni. «Per 60 anni l’unico aereo che avevano preso era stato per andare tre giorni a Parigi. Poi mia sorella ha cominciato a lavorare nei villaggi vacanze, e loro ad andarla a trovare». Questi viaggi erano stati un tempo supplementare, e inaspettato, di vita che li aveva resi intraprendenti e felici. Gli piaceva ricordare i posti che avevano visto, lo facevano seduti al tavolo del salotto. Il divano, con le coperture nocciola fatte da Rosa, sembra nuovo. «Credo non ci si siano seduti mai». Quando la morte è entrata in questa palazzina gialla, Iviano era qui, a dare una mano ai suoi genitori. A un certo punto è rimasto solo, con la febbre alta, ad aspettare di avere buone notizie. Non sono arrivate. Una scrittura aggraziata ha segnato sul calendario appeso in cucina, fermo al mese di aprile, «compleanno Virgilio» sul giorno 23. Le bucce di mandarino sul calorifero non sprigionano più nessun profumo.
Quando perdi tutti e due i genitori devi fare i conti, oltre che con il dolore, anche con l’incredulità. Quelli di Cristina, Sabina ed Elisa Fiorani, sono morti il 7 e l’8 marzo e i loro occhi, sopra le mascherine, non si danno pace. Per una coincidenza buffa Alberto e Antonietta avevano lo stesso cognome anche prima di sposarsi, per un altro tipo di coincidenza se ne sono andati a poche ore di distanza, come testimoniano le cartelle cliniche appoggiate sul letto matrimoniale, accanto ai vestiti lavati a 90 gradi, per disinfettarli. Si sono ammalati presto, quando ancora ti dicevano che era meglio stare a casa. Alberto no, l’hanno portato via, ma Antonietta l’hanno curata per un po’ le figlie che adesso si chiedono se hanno fatto abbastanza, sbagliato qualcosa, se alla fine, morire per morire, allora non sarebbe stato meglio tenerli qua – nel pianterreno con annesso giardino, dove ci sono i cappelli di Alberto appesi ai ganci, il gatto Pepe, le torte con le more e gli amaretti – a finire la vita dove la avevano vissuta, e non da soli, come invece è stato. Alberto, raccontano le figlie, andava a tutti i funerali di Guardamiglio, il suo paese. Ricorda Cristina: «Diceva sempre che tutti devono essere salutati degnamente. È così brutto, e assurdo che proprio lui un funerale non l’abbia avuto». Sui giornali locali per raccontare la loro storia hanno messo la loro foto preferita che sta appesa nel tinello: brindano ai 50 anni di matrimonio. La foto non è un granché, è pure sfocata, ma Antonietta diceva sempre che, anche se in quello scatto non era sola, ma c’era anche Alberto, avrebbe voluto quella per ricordarla. Non poteva immaginare quanto profetico sarebbe stato il suo desiderio.
Il telefono di casa Bianchi suona ogni giorno, Ivonne, truccata e con gli orecchini – «lo faccio per non impazzire» – risponde e impara un pezzo nuovo di quell’uomo che le è stato marito per quasi 60 anni. Gente che lei non conosce le fa le condoglianze e le parla di quel che ha fatto Alessandro, lei dice grazie grazie, ma non sa a che cosa si riferiscano esattamente. «Sapevo che era amato, che aveva fatto del bene, ma non immaginavo così». Alessandro Bianchi, figlio di un guardacaccia, negli anni Sessanta aveva comprato terra in Franciacorta e, sognando lo Champagne, aveva iniziato a coltivarla. L’anno scorso l’azienda che ha fondato, Villa Franciacorta, ha prodotto 300 mila bottiglie, ma lui, più della cantina, amava la vigna. Diceva che la terra non ti tradisce e che non è mai veramente tua, ce l’hai solo in prestito e devi volerle bene. Forse per questo non ne ha mai venduto nemmeno un pezzo a chi aveva bisogno di metterci i capannoni. Per far contenta Ivonne, si erano fatti una villetta vista Lago d’Iseo – molti fiori, molto Liberty – quando ormai erano ottantenni. Alessandro amava stare seduto nella veranda coperta o nello studio che ora Ivonne vorrebbe sistemare, ma non sa da dove cominciare. Allora si aggira con il dispiacere per un marito morto e l’angoscia per una figlia appena uscita da tre settimane di terapia intensiva. «Non voglio fare la carogna, ma mi scappa da piangere», dice. A stare lì da sola ha paura, ogni notte si chiude a chiave nella stanza da letto. Due mandate alla porta, le preghiere alla Madonna, dopo qualche ora che guarda i suoi amati fiori sulla parete, il sonno, finalmente, arriva.
Anche Franco Origgi amava i fiori. Li vedeva dentro i pezzi di legno e li faceva venire fuori a colpi di scalpello. Sapeva fare anche animali, putti, volti, ma erano i fiori la cosa che preferiva intagliare, non si sa se per una inattesa forma di romanticismo o per una sfida tra la sua mano e la materia. Lavorava il legno da quasi ottant’anni: nel suo laboratorio dietro casa, a Camnago, c’è un buonissimo odore di bosco d’estate, lavori da finire, e più di 300 scalpelli uguali solo all’apparenza. Lavorare, come per tanti della sua generazione, era il suo modo di stare al mondo, amare, esistere. Parlava poco, ma oltre che le mani sapeva muove- re i piedi. Lui e sua moglie Maria Luisa si erano conosciuti in una sala da ballo di Melzo. «Poi, abbiamo continuato a ballare anche da sposati», dice lei, e sembra voler dire anche che, nonostante le fatiche e gli anni, ci sono luci che non si spengono. Come con tanti altri, anche con lui la malattia ha giocato: stava male, poi molto meglio, poi è andato via da un momento all’altro. I figli Walter e Stefano l’hanno salutato dalla finestra: il carro funebre, sulla strada per il cimitero, ha sostato per un breve istante davanti a casa.
«Mio padre? Mio padre mi ha dato la vita. E poi, 56 anni dopo, me l’ha lasciata». Beppe Ardenghi è un omone che parla a voce altissima. Sua madre Noris gli dice spesso: tas! Taci, ma lui non la ascolta. «Qualcuno, lassù, deve aver detto: ne voglio uno, chi viene? È andato lui, al posto mio».
Beppe e suo papà Antonio sono stati tra i primi ad ammalarsi a Nembro, il paese dove la mortalità da Covid ha registrato il tasso più alto del pianeta, e mentre il figlio cominciava la sua lotta per vivere, il padre la perdeva. Era il 27 febbraio 2020. Negli 82 anni della sua vita Antonio aveva conosciuto la miseria più nera, il doppio lavoro per campare quattro figli, il rigore morale che l’aveva portato alla pensione «senza nemmeno un giorno di assenza per malattia», ricorda la moglie. In quest’esistenza asciutta l’unico lusso erano stati i fumetti di Tex Willer, che comprava con puntualità maniacale e collezionava rubando spazio prima in casa e poi in cantina. Quando Beppe è uscito dalla terapia intensiva, dieci giorni dopo esserci entrato, non sapeva che mese fosse. Ha dovuto fare i conti con l’astinenza da morfina, gli attacchi di panico e con l’idea che suo padre non ci fosse più. Mentre racconta di lui, passa la mano sulla giacca verde con gli stemmi appoggiata alla poltrona dove Antonio amava sedersi a guardare l’orto. «Mio padre era soprattutto questo: un alpino. Dava una mano alla casa di riposo, all’asilo, ha costruito mezza sede degli Alpini qui in paese. Faceva la castagnata e poi le caldarroste. Lo conoscevano tutti, è una bella cosa».
I Bergamelli, a Nembro, li han sempre chiamati «i bianchi» perché son tutti biondi da generazioni: lo si capisce anche nelle foto in bianco e nero di Pasquale appese ai muri; in quasi tutte sta correndo con lo sguardo basso per la fatica. Era un corridore di montagna, da quando farlo non era uno sport e le scarpe da corsa te le davano solo il giorno della gara, facevano venire le vesciche e allora dovevi toglierle e continuare a piedi nudi. Nel 1966 aveva vinto la Podone, 24 chilometri, 1.800 metri di dislivello. Aveva talento, ma tra continuare e mettere su famiglia aveva scelto la seconda cosa e tutta l’energia delle gambe l’aveva messa nelle braccia: la casa in cui i suoi tre figli mi parlano di lui l’aveva costruita da solo, scavando le fondamenta con la pala. A parte per il suo passato sportivo, in paese lo conoscevano perché era un volontario. Allestiva il presepe, portava la croce ai funerali, sistemava le aiuole, la colonia, l’oratorio. Ha collezionato 130 donazioni del sangue. L’ultima, per fare cifra tonda, gliel’hanno lasciata fare, anche se, per un giorno, aveva superato il limite di età. Pasquale, amante della polenta, del vino che faceva lui in cantina, dei nipoti e delle persone tutte, è morto l’8 marzo. Aveva detto a tutti di aver buttato le sue scarpette da corsa chiodate. Sua figlia Giuliana le ha trovate in una scatola, nascoste sotto a un paio di scarponcini che, da tempo, le diceva di passare a prendere.
A oggi in Italia sono morte per Covid 31.106 persone. Nella sola Lombardia 15.187. Lastragrande maggioranza di loro non ha avuto funerali. Le case che hanno abitato e le cose che hanno amato e maneggiato restano a loro memoria.