Di recente, il regime del 41 bis è tornato al centro del dibattito dell’opinione pubblica. Tuttavia, ancora una volta, non si è trattato di una discussione che mettesse al centro l’individuo e la funzione della pena, bensì dell’ennesimo tentativo di rendere ancora più afflittivo e punitivo l’attuale sistema penale. Il tutto è iniziato con le polemiche riguardanti le cosiddette scarcerazioni – che in realtà sono detenzioni domiciliari- di detenuti in alta sicurezza durante l’emergenza legata alla pandemia, di cui solo tre erano in regime di 41 bis e in condizioni di salute tali da far ritenere al giudice di sorveglianza la detenzione domiciliare necessaria perchè essi potessero ricevere cure adeguate al di fuori delle mura carcerarie. La mala informazione e il costante clima di odio e insicurezza in cui viviamo hanno poi fatto la loro parte e il Ministro della Giustizia Bonafede ha ritenuto opportuno sfornare in fretta e furia un decreto “anti-boss”, che desse la possibilità di rivedere i provvedimenti assunti e ripristinare la detenzione laddove possibile. Il decreto è già stato oggetto, dopo solo un mese, di due questioni di legittimità costituzionale da parte dei Magistrati di Sorveglianza di Spoleto e Sassari.
L’ultima polemica ha però riguardato il divieto di comunicazione che vige per i detenuti in regime di 41 bis: si tratta di una vicenda che ha coinvolto il Magistrato di sorveglianza de L’Aquila due anni fa ma su cui solo pochi giorni fa la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi. Andando con ordine, l’ergastolano Mario De Sena, in regime di 41 bis, era stato escluso dalle attività in comune per aver precedentemente augurato la buonanotte a detenuti appartenenti a un diverso gruppo di socialità. L’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario sancisce infatti il divieto per i detenuti in tale regime di ogni forma di comunicazione e dialogo con reclusi di altri gruppi di socialità. La norma, precisando che può trattarsi anche di comunicazioni non verbali, è finalizzata ad evitare contatti “pericolosi” tra sodali. Tuttavia, il magistrato di sorveglianza aveva poi ritenuto di accogliere il reclamo presentato dal detenuto, stabilendo che augurare la buonanotte si configura come una forma di comunicazione neutra, priva quindi di altri contenuti, che non violerebbe in alcun modo il dettato della norma, finalizzata ad evitare lo scambio di notizie. Dello stesso avviso non era invece il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, che ha presentato ricorso avverso tale decisione, adducendo un’erronea applicazione di legge ex articolo 606, comma 1 lett. b, c.p.c, e precisando che la sanzione inizialmente comminata non ledeva in alcun modo il diritto del detenuto di comunicare, assicurato all’interno del gruppo di socialità in cui è inserito. L’interpretazione portata avanti dall’amministrazione individuava la comunicazione in qualsiasi forma di contatto, non essendo però in grado di specificare di quale comunicazione occulta o fraudolenta si trattasse. E così la Suprema Corte di Cassazione, pochi giorni fa, ha precisato che tale sanzione, non intravedendo o sospettando alcun significato diverso da quello apparente da attribuire alla buonanotte, si sarebbe risolta in un’inutile afflizione non finalizzata al rispetto di alcuna norma, e dunque da evitare. La Cassazione ha così accolto l’interpretazione fornita dal magistrato di sorveglianza, precisando che si può parlare di comunicazione esclusivamente quando si instauri un dialogo e ci sia quindi uno scambio di contenuti, che in questo caso sembra non sussistere.
Pur trattandosi di una vicenda abbastanza limpida, essa ha dato adito a numerose polemiche e i giudici sono stati accusati di eccessiva permissività, oltre che incapacità di leggere il linguaggio omertoso di cui talune categorie di detenuti si servirebbero. Al di là di questo singolo episodio, molti sembrano dimenticare che se non è possibile dimostrare la colpevolezza di un comportamento, e quindi in questo caso individuare il significato occulto da attribuire alla buonanotte, qualsiasi soggetto si presume innocente, qualunque siano gli ulteriori reati di cui egli si è macchiato.
È necessario che le condanne e il nostro sistema penale vengano depurati da tutti quegli elementi esclusivamente afflittivi e punitivi che nulla hanno a che vedere con la funzione rieducativa della pena. Un ulteriore passo in avanti è stato fatto poche settimane fa dalla Corte Costituzionale, che ha ritenuto illegittimo per violazione degli articoli 3 e 27, comma 3 della Costituzione, il divieto assoluto di scambiarsi oggetti se applicato a detenuti in regime di 41 bis ma appartenenti allo stesso gruppo di socialità. Questi trascorrono infatti del tempo insieme e hanno la possibilità di comunicare, quindi risulta irragionevole non poter scambiare oggetti di modesto valore e di uso quotidiano, a cui nessun significato occulto o fraudolento può essere attribuito. Anche in questo caso si tratterebbe di un’inutile afflizione che inoltre limiterebbe la creazione di una seppur scarna forma di socializzazione tra persone che vivono la propria quotidianità e gli spazi comuni insieme.
Si tratta di un buon segnale di partenza per un cammino che è necessario intraprendere per liberare il nostro ordinamento da qualsiasi velleità punitiva e repressiva.
A cura di Giusy Santella