Se il fine della pena è la rieducazione, allora il percorso di reinserimento del detenuto deve necessariamente fondarsi su tre pilastri: lavoro, formazione e istruzione, che devono essere considerati unitariamente e modellati come reali strumenti di riscatto per chi sta scontando la propria pena.
Innanzitutto, essendo i detenuti individui dotati ciascuno di una propria personalità e attitudine, è necessario un momento iniziale di certificazione delle competenze pregresse, così da fa emergere i reali fabbisogni formativi e di istruzione presenti in ciascun istituto. Possono infatti essere presenti esperienze professionali, sia a bassa qualificazione, sia ad elevato contenuto professionale che andrebbero valorizzate per rendere reale il percorso di reinserimento nella società.
Abbiamo già avuto modo di sottolineare le difficoltà- acuite dalla pandemia- collegate all’istruzione in carcere, dovute tra le tante cose anche alla diversa gestione dei singoli istituti penitenziari e alla mancanza di norme imperative che disciplinano la materia. Per quanto riguarda il lavoro, esso può essere intramurario se si svolge alle dipendenze della stessa amministrazione penitenziaria oppure extramurario se invece è lavoro esterno alle dipendenze di aziende o cooperative sociali. Il XVI Rapporto sulle condizioni di detenzione presentato da Antigone il mese scorso parla di 18070 detenuti coinvolti in attività lavorativa, anche solo per poche ore, al 31 dicembre 2019: essi rappresentano il 29,74% della popolazione detenuta totale, confermando un dato che non supera il 30% oramai da dieci anni. L’86,82% di questi sono impiegati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, in particolare in incarichi legati alla pulizia e alla consegna dei pasti, mentre pochissimi sono impegnati in lavorazioni interne come la falegnameria e manutenzione, ancor meno in servizi esterni ex articolo 21 dell’ordinamento penitenziario.
Quest’ultima disposizione disciplina la possibilità che i detenuti vengano assegnati a svolgere il loro lavoro all’esterno che, diversamente modulato a seconda del regime detentivo in cui ci si trova, offre sicuramente una chance di rieducazione maggiore. Delle 2381 persone recluse che nel 2019 hanno lavorato per soggetti diversi dall’amministrazione penitenziaria, solo il 28,6% lo faceva ex art. 21, mentre i restanti si trovavano in regime di semilibertà- che consente di passare fuori dall’istituto tutto il tempo necessario per il lavoro o la formazione- oppure lavoravano per aziende e cooperative ma all’interno dello stesso carcere.
I dati forniti testimoniano la scarsa qualifica del lavoro penitenziario che è spesso considerato come mero strumento di contenimento, per ammortizzare le tensioni interne, piuttosto che come vera occasione di riscatto. Se spostiamo l’asse del nostro discorso nell’ambito campano, servendoci della relazione annuale presentata dal Garante dei detenuti Samuele Ciambriello, le problematiche sussistenti a livello nazionale sono confermate: 2500 persone recluse impiegate in attività lavorative nel 2019, di cui 2349 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e pochissime nel lavoro extramurario ex articolo 21 o.p. Il lavoro è poco e quasi mai si riesce a racimolare qualcosa da mandare alle proprie famiglie che sostengono i detenuti negli istituti. A ciò che si aggiunga che chi svolge attività domestiche, non può ricevere la Naspi, essendo così privato di un diritto normalmente riconosciuto a chi lavora.
Il budget a disposizione per ciascun detenuto dipendente varia da istituto a istituto e tiene conto del budget annuale e del numero di persone impiegate. Tuttavia, si tratta dappertutto di cifre molto basse, che danno conto, come segnalato dall’Associazione Antigone, dell’incapacità del sistema a provvedere al lavoro come diritto e come strumento di reintegrazione sociale. Molta preoccupazione è poi manifestata da più parti anche per i lavori non retribuiti, di cui appare difficile assicurare la volontarietà.
Molto dipende quindi dalle specifiche condizioni di reclusione, che possono anche impedire o agevolare l’accesso a percorsi formativi, ulteriore strumento di rieducazione per il detenuto. A livello nazionale, nel secondo semestre del 2019, sono stati avviati 203 corsi di formazione professionale nelle carceri italiane, pur con un quadro disomogeneo e alcune regioni come Liguria, Sardegna e Veneto, in cui non ne è stato avviato nessuno. Per quanto riguarda la Campania, nello scorso anno si sono svolti 23 corsi di formazione, di cui 16 promossi dalla Regione e 7 da organizzazioni non profit e del terzo settore, con 236 iscritti e un incremento di 134 soggetti coinvolti rispetto al 2018. Come segnalato dal Garante Ciambriello, per quanto riguarda gli adulti si tratta di numeri ancora insufficienti poiché rappresentano solo il 2% della popolazione detenuta. Diversa è la situazione per quanto riguarda i minori reclusi poiché il 73% di essi è stato coinvolto in attività formative di vario genere. A queste vanno aggiunte le attività formative portate avanti dal Uepe.
Il lavoro e la formazione sono dunque essenziali nel percorso di risocializzazione e reintegrazione nella società, tuttavia sono ancora molte le difficoltà da superare: da un lato, essi devono essere concepiti come reali strumenti di reinserimento e rimodulati dunque attraverso un coordinamento con tutte le realtà esterne possibili, tra cui il mondo del terzo settore, gli enti locali e le imprese; dall’altro, è necessario un cambiamento di mentalità all’esterno, che spogli i detenuti del pregiudizio e dello stigma che essi portano con sé anche dopo la fine della loro pena. Fino a quando la società esterna non sarà pronta a vedere colui che sconta o che ha scontato la propria pena come un essere umano che merita il rispetto dei propri diritti, allora sarà impossibile un cambio di rotta e di fronte a noi avremo semplicemente ex detenuti che non hanno la possibilità di rientrare in società.
A cura di Giusy Santella