In quest’ultimo anno l’Italia ha cambiato più volte rotta ed ha pagato duramente, con una serie di correzioni dolorose e necessarie, il prezzo di un ventennio di andamenti anomali, ed ora sembra essere bene impostata per raggiungere gli obiettivi finanziari che le dovrebbero permettere di uscire, senza altre ferite, dalla crisi in atto. I risultati delle recentissime elezioni europee, consegnano un quadro modificato del Paese; la vittoria del Pd guidato da Renzi è di portata superiore ad ogni previsione e sarà sua la responsabilità sul futuro percorso da intraprendere. L’Italia di oggi si presenta in Europa come un paese che «ha fatto i compiti a casa».
L’Istat ha calcolato che nel triennio 2011-13 la riduzione della spesa pubblica è risultata maggiore di quella inizialmente stimata: la spesa pubblica italiana è rimasta sostanzialmente stabile, mentre è aumentata del 7,3% in una Francia che ha difficoltà strutturali superiori a quelle italiane, del 3,6 % nel Regno Unito e del 2,4 % nella virtuosa Germania. Questo risultato è stato raggiunto grazie alla riduzione della spesa per il personale, ma soprattutto degli investimenti fissi, un taglio che ha avuto effetti negativi sia diretti sia indiretti sulla crescita italiana. Proprio per questo, Renzi farà bene ad insistere affinché i futuri investimenti pubblici, specie se intesi a migliorare la produttività, dovranno essere, almeno in parte, esclusi dai tetti alla spesa. Inoltre, secondo gli indicatori costruiti dalla Commissione Europea, la sostenibilità del debito pubblico italiano è tra le migliori. La conclusione che si può trarre da tutto ciò è che il Presidente del Consiglio italiano dovrà andare in Europa a testa alta. Molti paesi europei, nonostante una salute apparente, si trovano in condizioni peggiori. È giunto il momento dunque a Bruxelles, di richiedere con autorevolezza, una rapida evoluzione in senso espansivo delle politiche europee. Si dovrà lavorare per favorire la fine della politica di austerità; per superare definitivamente i vincoli di bilancio e salutare il fiscal compact. Incontro il presidente emerito della Corte Costituzionale, Francesco Paolo Casavola, dopo poco più di un anno dall’intervista pubblicata sul primo numero di Link, durante la quale parlammo di democrazia e crisi dei partiti politici, ed a seguito della quale lanciammo un sondaggio per raccogliere opinioni sulla opportunità di abolire il Senato, in un’ottica di riforma della Carta costituzionale. Da allora, lo scenario è cambiato ed il dibattito sulle riforme in Italia si è intensificato ed interrotto più volte. La prima domanda che pongo al presidente Casavola è inevitabilmente sull’Europa.
Presidente, come vede l’Europa di oggi e quella in ieri?
«L’Europa deve diventare finalmente un soggetto unitario e superare definitivamente e radicalmente la storia trascorsa, di una grande alleanza regolata dalla cornice di un atto di diritto internazionale, quali sono stati i suoi trattati che dalle comunità (carbone, acciaio, mercato unico), l’hanno condotta, dopo Maastricht, alla Unione Europea. Questo superamento significa che l’Europa deve darsi una Costituzione con gli organi, di una statualità comune, in modo che abbia una politica estera ed interna imputabile ad un soggetto unitario. Dopo la strada funzionalista, occorre tornare strategicamente, alla costruzione ed all’effettivo percorso di una strada costituzionale. Così si tornerebbe al presupposto politico di una piena legittimazione a governare sovranamente gli interessi dei popoli europei, superando tutte le attuali disuguaglianze, nei loro ordinamenti interni e nelle loro economie».
Il tema delle riforme è strettamente legato ad ogni forma di sviluppo possibile del nostro Paese in un’ottica europea, per questo conduco la discussione su questo piano le chiedo provocatoriamente: una Costituzione è materia disponibile per essere riformata?
«La storia insegna che tutte le costituzioni non si sottraggono al mutamento delle società e dei loro ordinamenti politici, ed anzi, ne sono il segnale più alto. Ciò detto bisogna riconoscere che le costituzioni sono figlie della lotta politica. La sconfitta militare e l’abbattimento di un regime politico, sono stati per l’Italia la matrice della costituzione repubblicana».
Dove segnare il confine fra politica e Costituzione?
«Il confine sta nei valori che il testo costituzionale enuncia, prendendoli in eredità dai processi storici profondi, di natura etica e spirituale, sottesi agli eventi politici. La persona umana è il valore per cui viene tessuto il telaio delle regole costituzionali; di quelle regole che disegnano l’ordinamento della Repubblica. Quel valore è irrinunciabile nella sua perpetuità; tutto il resto può e deve essere confermato o riformato. E qui la costituzione torna ad essere politica. In una democrazia parlamentare la revisione della costituzione, va affidata alla missione dei partiti che devono interpretare i processi sociali e culturali cosa che esige un continuo adattamento di regole a valori permanenti. L’opinione pubblica democratica deve poter vigilare la correttezza di questa attività interpretativa degli attori politici; questo è lo spirito dell’art. 138 della costituzione che chiede l’intervento del popolo attraverso il ricorso alla consultazione referendaria».
Presidente, cosa è cambiato in quest’ultimo anno in Italia sul tema delle riforme istituzionali?
«Ben poco… si sono affacciate un serie di proposte fluide, non chiare e soprattutto non risolutorie. Ritengo che l’unico elemento davvero positivo emerso sia la forte convinzione del Presidente del Consiglio, a procedere sulla strada delle riforme, ed il plebiscito di voti alle ultime consultazioni elettorali, gli consegnano pienamente la responsabilità a proseguire in tal senso. Ad oggi, il lavoro dei comitati dei saggi che si sono succeduti nel percorso che dovrebbe condurre alle prime urgenti riforme costituzionali, non appare aver prodotto nulla di significativo. Non si delinea un disegno organico e coerente, espressione di una volontà riformatrice, pienamente condivisa dalle forze politiche che manifestamente si proclamano “riformatrici”».
Da cosa si dovrebbe partire?
«Intanto definendo in maniera chiara in che cosa consiste la trasformazione del sistema bicamerale con una Camera politica ed una Camera pura proiezione dei governi territoriali. Sarebbe più razionale e comprensibile, da parte dei cittadini, l’eliminazione secca di questa eredità dello statuto Albertino (parlo del Senato, naturalmente), sopravvissuta malgrado forti contrasti in Assemblea Costituente, nella carta del 1948, e nell’esperienza della vita politica Repubblicana. Poi si dovrebbe lavorare sulle fonti, ma questo è un tema ancora nemmeno sfiorato. Arriviamo alla legge elettorale in preparazione che deve avere come chiaro esito un bipolarismo che conduca alla alternanza nel potere e non invece alla perpetuazione di un raggiunto equilibrio fra maggioranza ed opposizione, solo con la prospettiva dell’alternanza; la volontà dei cittadini potrà significare, partecipazione
allo sviluppo democratico, e non solo strumento di legittimazione formale di uno schieramento maggioritario. L’ordinamento delle autonomie dovrebbe poi essere rivisitato tenendo conto della esigenza di una forte integrazione della nazione in un’Europa più solidale e compatta, riducendo le tentazioni localistiche e centrifughe che un briglia sciolte delle autonomie fatalmente determinerebbe».