Cultura

14 luglio 1948: l’attentato a Palmiro Togliatti

Quel pomeriggio ero su un tram fermo all’altezza della farmacia Vecchione. Gli strilloni del “Roma” correvano per la città gridando: «Edizione straordinaria», perché, sì,allora i giornali si vendevano a ancora “strillando” per le strade.

Il tranviere chiese allo strillone cosa fosse successo. «Hanno sparato a Togliatti» fu la risposta. Il tranviere si girò verso di noi dicendo: «Per favore scendete perché il servizio è finito».

Scesi noi, si avviò al deposito. Dal vicino porto cominciarono ad arrivare i camion con gli operai della “Bacini e scali” e della “OMF” ed altre fabbriche della zona, invadendo il Rettifilo fra grida e bandiere rosse. La stessa cosa successe a Bagnoli all’Ilva. Lo sciopero generale scattò così: spontaneamente. La CGIL coprì lo sciopero con una dichiarazione ufficiale nel tardo pomeriggio dopo che esso era già in atto in tutta Italia. Questa decisione offrì il pretesto alla corrente cattolica che già l’aveva maturata, di proclamare la scissione uscendo dalla CGIL per formare la CISL. Forse qualcuno l’ha dimenticato ma allora la CGIL era l’organizzazione unitaria di tutti i lavoratori italiani ed era governata da una segreterìa diretta da Di Vittorio comunista e che aveva come membri i rappresentanti delle altre forze politiche: la corrente cattolica popolare, quella socialista, quella socialdemocratica e quella repubblicana. Queste ultime due, con l’aiuto organizzativo e finanziario dell’AFL-CIO confluirono nella UIL.

La gente correva a casa ed i negozi abbassavano le saracinesche con assordante fragore. La tensione si sentiva nell’aria, quasi palpabile. Gli attivisti del PCI aprirono le sezioni e nel caos si sforzarono di garantire l’ordine pubblico evitando vandalismi e violenze. Amendola tenne un comizio sotto Palazzo San Giacomo sostenendo la linea della Direzione che seguì le indicazioni di Togliatti che ai compagni della Direzione, prima di andare in camera operatoria sussurrò: «Non perdete la testa».

Noi avemmo un duro scontro con la folla inferocita che a Piazza Dante voleva incendiare i tram. Facemmo un cordone intorno alle vetture dicendo che erano un bene comune che andava tutelato. Ci riuscimmo. Dopo qualche indecisione la reazione della polizia di Scelba, la famigerata “Celere”, fu feroce e sanguinosa. Ci furono morti e feriti in tutta Italia. A Genova fecero uscire i carri armati dalle caserme. Giunti a Piazza Principe i soldati, allora di leva, si rifiutarono di procedere contro la folla e li abbandonarono.

A Napoli lo scontro avvenne a Piazza Dante. Ci furono due morti: uno studente lucano ed un giovane operaio del Vasto. A volte la storia conferma i simboli di una politica. Allora si gridava nei cortei: Studenti, operai uniti nella lotta!

Le vittime della ferocia scelbiana furono appunto uno studente ed un operaio: Quinto e Fischetti. I loro funerali furono una immensa manifestazione popolare. Ricordo le sorelle e la mamma dello studente, venute dalla Basilicata, vestite con lunghi scialli neri. La mamma in particolare, stravolta dal dolore con i lunghi capelli neri sciolti che gridava, cantando una specie di nenia funebre le lodi del figlio: «Figlio, spada lucente» gridava fra i singhiozzi e le lacrime . Furono giorni di tragedia che ebbero lunghi strascichi. I minatori dell’Amiata si arresero dopo qualche settimana. Furono arrestati in massa e condannati a pene durissime. All’epoca, quando si trattava di operai o gente del popolo la magistratura era particolarmente dura e non esistevano preoccupazioni garantiste che tormentano oggi le anime belle.

Gira tuttora sui giornali e forse la leggerete in qualche articolo di memorie che la vittoria di Bartali al Tour avesse placato gli animi e salvato l’Italia. È una fandonia. Nessuno ci fece caso. In quei giorni di confusione, di manifestazioni represse in maniera cruenta il Tour era l’ultimo dei pensieri degli italiani. Come Partito Comunista riuscimmo ad evitare la trappola e non facemmo la fine di Markos in Grecia che, andando allo scontro armato con gli inglesi, uccise il partito greco e aprì la strada alle dittature.

Noi eravamo consapevoli che gli equilibri di Yalta avrebbero avuto l’effetto di insanguinare l’Italia e di mettere in pericolo la giovane democrazia italiana. Scelba e la destra avanzarono in quei giorni la proposta di mettere il PCI fuori legge. De Gasperi ebbe i nervi saldi e vinse lo scontro nel suo partito evitando una decisione che avrebbe immerso l’Italia in un bagno di sangue. Noi facemmo tutto il nostro dovere nell’orientare le masse evitando ribellismi pericolosi e potemmo farlo anche perché immersi nel popolo come pesci nell’acqua ed ognuno di noi aveva, a livello di quartiere o di strada, una autorevolezza riconosciuta. I compagni della Direzione furono i protagonisti di quelle dure giornate ma le scelte politiche del Partito si affermarono perché c’era una schiera numerosa di attivisti, di dirigenti di base che s’impegnarono allo spasimo per evitare conseguenze disastrose per il Paese.

La prova della giustezza di quella condotta l’avemmo a settembre del ’48, quando si tenne a Roma la prima grande festa dell’Unità, conclusa con un comizio di un Togliatti convalescente.

Invademmo la Capitale in maniera pacifica e festosa. Vennero gruppi folcloristici e bande musicali da tutta Italia. La mia Sezione sfilò ballando la tarantella per tutta via Nazionale: eravamo tutti molto giovani e l’energia non mancava. Le nostre ragazze furono applaudite a scena aperta. Noi continuammo a lavorare con tenacia ed avemmo il nostro premio alle elezioni del ’53 quando riuscimmo ad evitare la vittoria della cosiddetta Legge Truffa che, tuttavia, rispetto alla legge elettorale in discussione era un modello di democrazia. Essa prevedeva un premio di maggioranza per la coalizione che avesse superato il 50% più uno dei voti. A voi le considerazioni.

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