Quando ho preso la sua lunga, fredda, sottile, ossuta mano da pianista tra le mie, ho sentito un brivido dentro. Ho pensato che stavo accarezzando la mano di un vescovo-profeta, difensore delle cause più nobili degli oppressi, simbolo della lotta per la giustizia in tutto il mondo e paladino della teo-prassi di liberazione. Seduto all’altro lato di dom Pedro Casaldáliga, padre Ángel, sempre pronto, ha dato voce all’incantesimo del momento: “Stiamo toccando la carne di un santo”.
Due anni fa, accompagnato dal fondatore di “Messaggeri della Pace”, ho avuto la fortuna non solo di stringere la mano a Casaldáliga, ma anche di mangiare al suo fianco e condividere la sua routine quotidiana per una settimana, nella sua casetta di mattoni e cartone ondulato, accudito con cura dai suoi tre fratelli agostiniani.
Lo ricordo nella sua poltrona bassa, sempre inclinato verso destra, con le mani tremanti e gli occhi sempre avvolgenti e il suo panno giallo per asciugarsi la saliva che a volte gli sfuggiva dagli angoli della bocca, mentre cercava di balbettare alcune parole, che capivamo solo con la “traduzione” di Saraiva o Valenzuela, due suoi compagni agostiniani che lo accompagnano da anni.
Parlava poco e guardava molto, assentiva a quello che dicevamo, sempre agli ordini del Parkinson, “il mio superiore generale, perché faccio sempre quello che mi ordina”, come ha sempre confessato con un misto di realismo e di rassegnazione. Nella nostra permanenza con il vescovo degli indigeni, ci sono stati diversi momenti di quelli che ti rimangono per sempre impressi nella memoria.
Il primo è stato quando, nella prima conversazione con monsignor Casaldáliga, padre Ángel ha tirato fuori il cellulare e, senza pensarci due volte, ha chiamato il cardinal Osoro, che si trovava a Madrid:
-Il cardinale di Madrid, Carlos Osoro, la chiamerà, annuncia a Casaldáliga padre Ángel.
– Questo è molto per me, riesce a dire il vescovo.
Si lasci amare, dom Pedro. C’è molta gente, in Spagna e nel mondo, che la considera un santo e un profeta.
E sul cellulare di padre Ángel risuona la voce del cardinal Osoro:
-Come stai, padre Angel?
-Don Carlos, grazie per essere venuto. Sono a San Félix di Araguaia con dom Pedro Casaldáliga. Se gli parla lentamente e ad alta voce, lo può ascoltare.
-Va bene…Dom Pedro, un saluto da parte del cardinale di Madrid, Carlos. L’ammiro per tante cose, ma soprattutto per la sua semplicità e per il suo modo di vivere il Vangelo in assoluta fiducia con il Signore. Lei è un testimone del Vangelo.
-Grazie.
-Conosco bene e ho molta amicizia con i claretiani, soprattutto con il cardinale Fernando Sebastián, che è stato mio professore. Un grande abbraccio e la mia benedizione.
-Ugualmente. Un abbraccio di comunione e di speranza.
Casaldáliga si emoziona e, nel restituire il cellulare, padre Ángel coglie l’occasione per dire a monsignor Osoro:
-Don Carlos, non crede che dom Pedro dovrebbe essere promosso cardinale?
-Ovviamente. Conta su di me e sul mio voto.
Tra i presenti c’è stato un momento di silenzio grato ed emozionato. Tutti condividono l’idea, che l’agostiniano Félix Valenzuela, per molti anni suo vicario generale e braccio destro, riassume così: “Sarebbe giusto e necessario che riceva un riconoscimento come figura e come riferimento da parte dell’istituzione, sebbene a Pedro non piacciono gli onori. Merita questo riconoscimento e posso anche dire che in un certo senso lo desidera e lo attende”. Ma quest’omaggio “ufficiale” non è mai arrivato.
Un altro momento speciale è stato quello di poter condividere l’Eucaristia nella cappella del suo “palazzo”, disegnata dal geniale Maximino Cerezo, a forma di cuore e con una scatola di latta nella quale custodisce una reliquia del suo amato martire monsignor Romero, suo santo e segno in vita e dopo morto.
E, dopo la messa, la colazione con Casaldáliga, che quella mattina era ancora più vivace del giorno prima. Felice di avere un visitatore al suo fianco, ha persino invitato una vicina, vecchia amica e difensore dei diritti umani, a cantarci una bellissima canzone di Chico Buarque, dal titolo “Sogno impossibile”. E durante quella colazione quasi miracolosamente ha iniziato a parlare ed a rispondere a tutte le domande che gli abbiamo fatto. Anche a quelle più delicate.
Accompagnati da Saraiva, l’agostiniano che scherzava ininterrottamente su tutti, a cominciare dallo stesso Casaldáliga, abbiamo percorso i suoi “luoghi santi”. Dal monastero dei martiri della “Caminhada”, alla sua semplice cattedrale (una sorta di parrocchia di quartiere, in cui risplendono i murales di Maximino Cerezo, il pittore della liberazione), passando per la sede della sua opera sociale e terminando nel cimitero dei dimenticati, dove vuole essere sepolto.
Il cimitero di Karajá, dove venivano seppelliti i bambini in scatole di scarpe e gli uomini senza alcuna scatola, si trova alla periferia della città, vicino all’imponente fiume Araguaia, affluente del Rio delle Amazzoni. Questo stesso fiume che ha attraversato tante volte per avvicinarsi, come ho fatto io stesso, ai villaggi degli indiani Xavante, alcuni dei quali si trovano su una grande isola in mezzo al fiume.
Presso la sede dell’opera sociale c’è un ampio spazio dedicato al museo-Casaldáliga, grazioso e austero come tutto nella sua vita, con foto, documenti, rapporti e ogni tipo di ricordi del prelato. A partire da una delle sue stole alla sua vecchissima macchina da scrivere, con uno dei suoi ultimi poemi nel rullo, che sembra volerci raccontare le volte che le sue fini dita hanno battuto sui tasti. Per scrivere i suoi proclami, i suoi bei poemi ed i suoi manifesti a favore dei più svantaggiati.
Perché Casaldáliga è sempre stato un rivoluzionario. Dai piedi alla testa. E bisogna scriverlo a chiare lettere. Per un vescovo che esce così: dalla stirpe del Nazareno. Quando quasi tutti gli altri sono baciapile e prudenti funzionari del sacro, che cercano di essere buoni senza disturbare e di cambiare il mondo senza denunciare gli sfruttatori dei loro fratelli.
Quelle che Casaldáliga chiamava le sue “cause” e che ha considerato sempre al di sopra della sua persona: i contadini senza terra, gli indiani emarginati, la giustizia calpestata dai fazendeiros e la terra sfruttata da braccia altrui a beneficio di pochi. Giustizia, indigenismo, ecologia, lotta per la terra…le tre T (terra, tetto, lavoro [in spagnolo trabajo, ndt]) di papa Francesco, che indirettamente ha raccolto la sua eredità sia nelle sue encicliche che nello stesso Sinodo dell’Amazzonia.
Certo, il Papa dei poveri non ha mai avuto un pensiero esplicito per il vescovo del popolo, che certamente ama e ammira. E questo gli abbiamo chiesto ardentemente…: “Santità, chiami Casaldáliga per i suoi 90 anni!”
Con una campagna che ha avuto un enorme successo: in soli dieci giorni 10.312 firme a sostegno della petizione e, per estensione, dell’opera del profeta dell’Amazzonia.
Ma Francesco non lo ha chiamato. E dire che qualche tempo dopo ha telefonato ad un altro esponente della Teologia della Liberazione, il prete-poeta nicaraguense Ernesto Cardenal. Perché no a dom Pedro? Misteri del papato di Francesco.
Con la citazione o no del papa, dom Pedro continuerà a vivere nella coscienza del “popolo santo di Dio”, che lo ha fatto suo in vita e lo vuole “santo subito” (questo sì) in morte. Tuttavia la sua eredità non morirà e non si spegnerà, cambierà semplicemente dimensione e il profeta dell’Araguaia inizierà a brillare di una luce universale.
Perché Casaldaliga è un vescovo amato dal popolo, sullo stile di Hélder Camara, Leónidas Proaño, Enrique Angelelli o Samuel Ruiz. Il popolo lo ha fatto suo, perché si è incarnato in lui, ha lottato per lui ed ha sempre difeso le sue cause. Anche a rischio della propria vita. Proprio lì, nella sua cattedrale Saraiva mi ha detto che una volta si è salvato per un pelo, perché è stato scambiato per João Bosco, anche lui missionario e fucilato senza pietà dai militari della dittatura.
In seguito è stato molte volte a rischio, ma sempre protetto dallo scudo del popolo. Perché le persone sanno chi è veramente dei loro e non solo nella teoria delle belle parole. E forse per questo motivo Casaldáliga non è stato un vescovo tipico. Nemmeno al momento della sua ordinazione episcopale, nella quale i simboli del potere si sono trasformati in icone di servizio. Il suo pastorale, un remo dei pescatori di Araguaia; la sua mitra, un cappello di paglia a falda larga dei contadini e il suo anello, un tucum, l’anello di palma indossato dai più umili.
La sua opzione radicale per i poveri e per il Vangelo “sine glossa” lo ha portato ad essere perseguitato dentro e fuori la Chiesa. Fuori lo difendeva il popolo, ma dentro non aveva quasi difensori a fronte degli attacchi di Giovanni Paolo II e dell’allora suo prefetto della Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger. Il papa e il suo numero due lo accusavano nientemeno che di non risiedere nella sua diocesi. Quando ne è uscito solo in poche occasioni, per difendere la rivoluzione sandinista o la rivoluzione cubana. E questo è stato il grande “peccato” di cui lo accusavano senza dirlo: cercare di sposare falce e martello con la croce o di cercare il comunismo cristiano dei primi cristiani.
Un santo normale, mistico con i piedi nudi sulla terra rossa; tutte le persone che ho visto avvicinarsi a lui durante la settimana in cui sono stato al suo fianco, lo hanno fatto con tanta devozione e riverenza come se fosse un santo vivente. Il santo del popolo. E forse la cosa migliore sarebbe che la Chiesa ufficiale, l’alto clero, non gli renda omaggio e non lo canonizzi. Perché, come Romero, l’altare ce l’ha già nel cuore del popolo: il santo di una Chiesa con cappello di paglia e sandali. E, come diceva dom Pedro nel salutarci, “un abbraccio nella pace sovversiva del Vangelo”.
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Articolo pubblicato il 10.08.2020 nel Blog dell’Autore in Religión Digital (www.religiondigital.com )
Traduzione a cura di Lorenzo TOMMASELLI