Che l’alleanza dei partiti che governa a Roma si trasformasse in una coalizione politica capace di presentarsi sui territori con un progetto amministrativo condiviso e unitario era fisiologico, per certi versi auspicabile. Ho sempre sostenuto la necessità che il centrosinistra e il Movimento 5 Stelle lavorassero ad un’intesa larga, di contenuto e di prospettiva. L’ho sempre fatto con riflessioni pubbliche, a viso aperto, al punto da essere additata da alcuni colleghi del mio ex gruppo come “quella che non è dei nostri”. Ma la trasformazione genetica del M5S, con buona pace di alcuni miopi osservatori, era iniziata inesorabilmente.
Le elezioni regionali umbre sono state il primo vero banco di prova di questa inedita convergenza. Ma la candidatura di Vincenzo Bianconi, con il seguito di liste a sostegno, è stata percepita – a giusta ragione – come un prodotto del Palazzo, un esperimento geneticamente costruito nel Transatlantico romano, del tutto estraneo al territorio e alle sue esigenze. Non una coalizione, ma un puro e semplice cartello elettorale.
In molti abbiamo insistito affinché il cantiere proseguisse, convinti che l’autosufficienza pentastellata fosse un miraggio destinato a tramontare. Se dopo l’Umbria si fosse praticato il dialogo anziché inseguire il rifugio identitario forse l’alleanza tra democratici e grillini avrebbe avuto presupposti diversi, più solidi e maggiormente credibili. L’esatto contrario della situazione attuale, insomma.
Non è l’alleanza in sé ad essere sbagliata, ma la strada percorsa, il rituale (mancato) di celebrazione. Se due forze politiche così profondamente diverse, che negli ultimi dieci anni si sono dette di tutto e di più alimentando conflitto nel paese e battaglie legali nei tribunali, decidono di avvicinarsi non può che essere un bene. A patto però che ciò avvenga mediante un rituale pubblico grandemente partecipato. Un tempo (bei tempi!) si sarebbe fatto un congresso, uno di quei momenti di massimo confronto tematico, valoriale e dialettico. Da lì, e solo da lì, poteva e doveva nascere un’ipotesi nuova. Non può di certo bastare un voto di ratifica su una piattaforma privata per legittimare una progettualità politica organica. Così come l’entusiasmo (poi mitigato fino quasi alla smentita) del leader democratico Nicola Zingaretti, senza che la Direzione del partito sancisse alcunché, è sembrata a molti una nota stonata.
Accade così che il nuovo centrosinistra, l’Ulivo 2.0., nasce monco, già appesantito da polemiche e lotte intestine, privo di un orizzonte definito e senza una bussola. Solo così si spiega la scelta di allearsi con chiunque a Pomigliano D’arco – civiche, sinistra, Udeur, Forza Italia – mentre nelle regioni sensibili, dove una sconfitta potrebbe avere delle ripercussioni tanto per il Governo quanto per la coalizione (Puglia), si sbatte la porta in faccia. Insomma è un’alleanza d’argilla, raffazzonata, allestita in fretta e furia senza indagare e risolvere le contraddizioni preesistenti e persistenti. Per non parlare poi di quella dimensione che potremmo definire prepolitica e che implica questioni altrettanto fondamentali. Garantismo o giustizialismo?, assistenzialismo o debito buono?, lotta al precariato o guerra ai precari?, sono solo alcuni di quei temi che un plebiscito digitale e un tweet non possono sviscerare e che finiscono anche per gravare sull’Esecutivo, paralizzandolo di fatto. Ne è un esempio l’Istruzione. Tanto parlare dei banchi a rotelle (che non arriveranno più a settembre ma comodamente nei prossimi mesi), ma mai una riflessione sui sistemi educativi, su una didattica da innovare, su un modello di comunità scolastica da ripensare parlando ‘con’ la scuola e non ‘di’ o ‘sulla’ scuola. Una rivoluzione copernicana di cui proprio non si vedono i presupposti, pur essendo questo il nodo cruciale dei prossimi anni. Davvero dobbiamo assistere impotenti ad un dibattito tutto appiattito su un Ministro incapace (citazione Salvini) e un politico gaglioffo (citazione Azzolina)?
In questo scenario il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari sta diventando lo strumento, l’unico in verità, per sancire il patto tra i due ex avversari. Ma anche qui gli errori, di merito e di metodo, sono tantissimi e se il PD recuperasse la lucidità con la quale denunciava al precedente Governo i limiti della legge di riforma costituzionale si accorgerebbe che nel quadro attuale, al netto delle troppe incognite e delle poche e rarefatte certezze, questo taglio rappresenta un pericoloso salto nel buio.
Una riforma che di riforma non ha nulla. Già durante i lavori parlamentari alcuni colleghi del M5S lo avevano capito, sussurrandolo nei corridoi, i più arditi scrivendolo in qualche chat. Leggere di parlamentari del Movimento a sostegno del No non mi sorprende e credo che sia utile al dibattito democratico. L’approvazione della legge era subordinata ad una serie di interventi necessari: ridefinizione dei Regolamenti parlamentari a tutela delle minoranze politiche, revisione del numero dei delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato, riequilibrio della rappresentanza in quei territori che saranno particolarmente colpiti. Risulta difficile credere che quanto non si è fatto in un anno si possa realizzare in una manciata di settimane. Soprattutto sul fronte della legge elettorale dove oltre ai collegi, alla percentuale di sbarramento e all’opzione maggioritario/proporzionale occorrerebbe anche discutere della reintroduzione del voto di preferenza, unico metodo di selezione libera e democratica della classe dirigente. Ebbene in assenza di tutto ciò il SI al referendum sancirebbe l’avvento di un Parlamento afono, appannaggio di una ristretta oligarchia di nominati dalle segreterie di partito. Da qui al vincolo di mandato, in linea concettuale, il passo è davvero breve.
Ancora una volta le nostre Istituzioni vengono strattonate a seconda della convenienza del momento. Capitò durante la formazione del Conte II quando il Capo dello Stato attese pazientemente quella sgrammaticata liturgia del voto on line, è capitato di recente con il coinvolgimento dell’INPS in una vicenda ancora poco trasparente, quella dei cosiddetti “furbetti di Montecitorio”, e si ripropone adesso con il Parlamento italiano trasformato nel trofeo dell’anticasta che si è fatta sistema e che attacca l’establishment da privilegiate posizioni ministeriali. Un evidente cortocircuito. O meglio, il gioco del populismo.
La vera sfida, che come me tanti altri avrebbero volentieri accettato, consisteva nello sterilizzare le spinte populiste dentro il perimetro riformista. È avvenuto l’esatto opposto. L’imminente election day, in particolar modo il voto referendario, potrà suggellare questo processo – o deriva – oppure decretarne la fine anticipata. Come sempre, l’ultima parola spetta agli italiani e anche stavolta c’è di mezzo la salvaguardia del nostro assetto costituzionale che vale di gran lunga più di un caffè all’anno.