Aspettando che arrivi una produzione di massa per i vaccini anti-Covid, e questo nelle previsioni più ottimistiche avverrà non prima dell’inizio-metà del prossimo anno, bisognerà ragionare su come distribuire le prime dosi, che non potranno bastare per tutti. L’orientamento più comune, adottato ad esempio dal Cdc statunitense, è di iniziare dagli operatori sanitari e dalle categorie più fragili, ma c’è chi non è d’accordo. Secondo alcuni ricercatori della University of Southern California e della Johns Hopkins ad esempio l’approccio più efficace nel limitare il virus è esattamente l’opposto.
“Dopo aver visto il rischio di una rapida diffusione del Covid-19 tra i giovani adulti non siamo d’accordo con la raccomandazione – scrivono sul sito The Conversation Dana Goldman, David Conti e Matthew E. Kahn –. La diffusione da parte di asintomatici sta facendo chiudere scuole e università, e minaccia le comunità. Secondo noi questa pandemia richiede un modello differente per le scelte. Dopo aver protetto i lavoratori sanitari i vaccini dovrebbero essere dati ai più grandi diffusori del virus, in maggioranza i giovani, e solo dopo ai più vulnerabili”.
Covid-19, 8 vaccini sono arrivati alla fase 3: che cosa significa
Il Corriere della Sera fa il punto della situazione sul fronte vaccini con Sergio Abrignani, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano:
«Sono 8 (su 176 in tutto il mondo) i candidati vaccini che hanno raggiunto la fase 3 e quindi potrebbero essere disponibili nei prossimi mesi: tre basati su vettori virali (AstraZeneca, CanSino e Gamaleya), tre su virus inattivati (tutti cinesi) e due su Rna (Moderna e BioNTech/Pfizer). La fase 3 può durare da 6 mesi a diversi anni e consiste nel somministrare il vaccino a 30-40mila persone, che vengono poi confrontate con un gruppo di controllo non vaccinato. Il numero di infezioni con malattia nel gruppo vaccinato deve essere notevolmente minore rispetto a quello registrato tra i altri volontari non immunizzati».
Alcuni dei «finalisti» potrebbero completare la fase 3 entro il 2020?
«Tutti lo speriamo ma è difficile che accada, visto il numero relativamente basso di infezioni, anche in Paesi come Brasile e Usa. Probabilmente ci saranno dati preliminari di efficacia e sicurezza, che mostrano la prevenzione della malattia in giovani e adulti sani. Informazioni che serviranno a valutare il rapporto fra il rischio di infezioni gravi e il beneficio di un vaccino ancora non definitivamente promosso. Ragionamenti che porteranno le autorità sanitarie a decidere se somministrare le prime dosi a particolari gruppi, come gli operatori sanitari, con un procedimento non standard».Finora, ricorda Abrignani, si è percorsa “una strada emergenziale: le aziende farmaceutiche hanno cominciato, con fondi di tutti i Governi, a produrre i vaccini già durante gli studi clinici, per essere pronti appena dopo l’ottenimento dei primi risultati. Nell’iter normale la produzione inizia solo dopo una prova definitiva di sicurezza ed efficacia. Probabilmente la vaccinazione universale della popolazione sarà avviata solo dopo dati solidi su gruppi molto più numerosi ed eterogenei”.
Quando arriva il vaccino? I tempi non sono certi
Secono Francesco Grillo, che ragiona insieme ai lettori sul Messaggero, c’è anche un’altra domanda che pochi si stanno ponendo: “Cosa dovrebbe cambiare nel modo di fare ricerca, nel rapporto stesso tra Stati, tra gli Stati e il mercato per correre più veloci e salvarci da questa insostenibile incertezza? La storia delle più recenti pandemie sembra far presagire tempi ai quali non siamo preparati. Il vaccino non è ancora disponibile – 17 anni dopo il primo caso – per la Sars, che è la malattia più simile al Covid-19; sono passati, invece, quarant’anni senza soluzione definitiva dal primo caso di Hiv che è stata – con 32 milioni di morti – la più grande pandemia della storia contemporanea. Intanto solo pochi mesi fa – dopo quasi mezzo secolo dal primo episodio – è cominciata la commercializzazione del farmaco che chiude per sem- pre la periodica recrudescenza di Ebola, il più mortale dei virus. Convivere per anni con il Covid è semplicemente inconcepibile per un mondo così sofisticato e fragile come quello nel quale abbiamo vissuto fino alla fine di febbraio”
“Con le aziende farmaceutiche va, invece, cercato un metodo di staccare la logica di voler rendere attrattivo l’investimento in ricerca da quella della proprietà della conoscenza stessa che risponde ad un altro, distinto interesse. In un mondomolto più veloce, i brevetti finiscono con il creare privilegi irreali (i bilanci degli ultimi tre anni dicono che la più grande delle aziende farmaceutiche – Pfizer – produce 160 miliardi di ricavi dai quali genera 50miliardi di utili netti che è una cifra cinque volte maggiore di quella che il mondo sta investendo nel vaccino) che finiscono con il danneggiare gli stessi principi che dovevano difendere: l’idea proposta dalla stessa Fondazione di Bill Gates è quella di sostituirli con premi per chi produce conoscenza”.