Miei cari lettori manca meno di una settimana a Natale, quello di quest’anno come ci siamo detti e abbiamo sentito più di una volta sarà un Natale particolare, che ricorderemo e che farà la storia. In questi casi, credo, per trovare un po’ di “normalità” in una “non normalità” non resta altro che prendere le nostre tradizioni e abbellirle. In che modo??
Pensateci, se si proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta fra le varie tradizioni e li si invitasse a scegliersi le più belle, ciascuno, dopo opportuna riflessione, preferirebbe quelle del suo paese: tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori le proprie costumanze. Di conseguenza, a me non resta che scrivere “Siehe Neapel und stirb”.
Non vi torna? Mettiamola giù diversamente: per descrivere i piatti tipici napoletani le parole di Johann Wolfgang Von Goethe mi sembrano più che azzeccate. Lo scrittore e poeta tedesco, nel corso del suo famoso “Viaggio in Italia” del 1787, si innamorò perdutamente del capoluogo campano. E come dargli torto? Le vedute sognanti sul mare, i vicoli frenetici e chiassosi, il calore della gente, e soprattutto la cucina tipica rendono il capoluogo della Campania una meta obbligata a prescindere. Ancor di più se la cucina di Napoli è in cima alla lista dei vostri desideri.
“Vedi Napoli e poi muori” diceva Goethe, e noi nel 2020 rilanciamo con un “Però prima assicurati di aver provato tutte le sue prelibatezze”. Oggi, voglio parlavi in particolare de “o roccocò.”
Che cos’è o roccocò?! “O Frat’ scEm rò CaSaTieLLo” così lo descriveva l’attore e comico Alessandro Siani. Ma in realtà, i Roccocò, che siano duri o morbidi, non può esserci Natale senza di loro. Insieme agli struffoli, i raffioli, i mostaccioli e i susamielli, i roccocò non possono mai mancare sulle tavole dei napoletani.
Il loro segreto è la durata nel tempo. Un calendario pagano-cattolico che inscrive la vita dei roccocò napoletani dall’Immacolata Concezione fino alla Befana. Coperti da un canovaccio o dalla carta di pasticceria che si stropiccia di più ad ogni scorribanda per mangiarli, i roccocò sono la resistenza della tradizione che non cede il passo a mode e tendenze differenti. Perché i roccocò più si induriscono, più sono buoni.
Nel poker dei biscotti di Natale tradizionali, i roccocò si aggregano in guantiere retrò accanto a mostaccioli, raffiuoli e susiamelli, uno scioglilingua che insaporisce di attesa il primo assaggio dal più soffice al glassato al cioccolato, per poi atterrare sulla sfida suprema di domare un roccocò. Con prudenza, perché nemmeno un goccio di umidità ne stressa la consistenza coriacea, in grado di scalfire dentature e conti in banca. Il roccocò deve essere duro, è la regola, non si discute. Il compromesso dei roccocò morbidi, cui si è ceduto più per marketing che per reale passione, è roba da neofiti senza spina dorsale, da amanti del light, da palato imbastardito. Non meritano nemmeno che glieli offriate. Che si rifugino in un mostacciolo, in una cassatina o direttamente nel pandoro, che optino per l’opulenza del panettone, ma tacciano per il bene (e la reputazione) comune.
La storia del roccocò napoletano comincia d’altronde ben prima di uno degli ultimi regni d’Italia: la prima attestazione sembra risalire al 1320 in una ricetta delle monache del Real Convento della Maddalena di Napoli, tanto per aggiungere simbolismi penitenti ai paralleli simbolici. Ma il nome roccocò avrebbe un’origine diversa, ben più spostata nel tempo e codificata secondo due scuole di pensiero linguistico: una storpiatura ingentilita del francese rocaille, roccia, o un’ispirazione dallo stile ornamentale rococò -con una sola C- sviluppatosi in Francia come evoluzione del barocco nel 18esimo secolo. Tendenzialmente si resta più sulla prima interpretazione. Resta la curiosità di sapere come si saranno chiamati originariamente i primi roccocò sfornati dalle pie donne, ma soprattutto quale demone del peccato di gola le abbia spinte ad impastare gli ingredienti dei roccocò, nominalmente mandorle finissime, farina, zucchero, zest di arancia e limone, ammoniaca per dolci, miele e pisto napoletano (oggi c’è pure chi li osa scurirli con una punta di cacao, facciamo finta di non conoscerli), tirarli con devozione per ottenere un composto asciutto, arrotolarli a ciambella, spennellarli di tuorlo d’uovo e incastonare mandorle nei punti cardinali, infine cuocerli in forno a temperatura alta per ottenere un biscotto duro, vertebrato, vero diamante grezzo della pasticceria napoletana.
Nel contesto culturale, la ricetta dei roccocò napoletani è una traduzione golosa dell’esotismo capriccioso dello stile artistico, cementato dall’aspetto di roccia scavata da geologi romantici. La composizione segreta delle spezie accarezza il palato come un segreto venuto da lontano, casuale e propiziatorio al fascino di sottrarne le briciole più grandi dal vassoio dopo averlo spaccato con le mani, nei casi più estremi persino con un colpo gentile di martello. I roccocò si offrono ma soprattutto si rubano di nascosto, pezzo dopo pezzo, fino alla fine delle feste di Natale.