Se tutte le donne attualmente disoccupate in Italia lavorassero, il PIL crescerebbe del 7%. No, non è un’invenzione, è un calcolo della Banca d’Italia. Il tema uguaglianza di genere ed economia nel mercato del lavoro e dell’istruzione, con l’accesso garantito a tutte le fasce di età, ha la risposta nell’ipotesi che evidenzia come la parità di genere, lavorativa e salariale, migliori la stabilità economica di una nazione. Il negativo è la realtà dei fatti del Paese Italia. I dati ISTAT del terzo trimestre 2020 sono preoccupanti: il tasso di disoccupazione femminile si attesta al 12,6% (con il 19,9% nel Sud Italia: è un quinto della popolazione, una cifra enorme), il calo del tasso di occupazione segna 1,5 punti, la disoccupazione cresce dell’1,3 e dello 0,9 l’inattività (sono le persone che non cercano lavoro, o sono talmente scoraggiate da non osare nemmeno farlo). Ma politici, governanti e legislatori sono ancora ignifughi all’evidenza di fuoco dei dati. L’impegno civile de Il Giusto Mezzo riguarda proprio l’attenzione verso le politiche di genere da inglobare nella visione economica del futuro. È la versione italiana dell’iniziativa Half Of It promossa dall’europarlamentare tedesca Alexandra Geese, che è partita dall’intuizione che l’assegnazione di determinati fondi europei vada a peggiorare, invece di colmare, le situazioni di disuguaglianza. La campagna nazionale si fa portavoce dell’esigenza di non accantonare la questione di genere nel disporre i finanziamenti del Recovery Fund e di Next Generation EU per superare l’emergenza economica da Coronavirus in Italia.
“Questa è una crisi pandemica. Ha un’origine diversa, non è né economica né finanziaria. In maniera surreale, i settori più colpiti da questo tipo di crisi sono anche i settori a più elevata concentrazione di occupazione femminile” spiega Azzurra Rinaldi, economista dell’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza e autrice dello studio #nextGenerationEU” Leaves Women Behind – Gender Impact Assessment of the European Commission, Proposals for the EU Recovery Plan assieme ad Elisabeth Klatzer, una valutazione di impatto di genere unica al mondo voluta proprio da Geese. La relazione è stata presentata in Commissione Europea nel giugno 2020, ma l’accordo tra i paesi era già stato preso e non c’era spazio per le nuove osservazioni. Il Parlamento Europeo, però, ha sottolineato la necessità di recepire quanto evidenziato dalle studiose passandolo a livello nazionale, con particolare attenzione richiesta a quei paesi “come l’Italia” che hanno da sempre una grave situazione di squilibrio di genere. Il Giusto Mezzo si propone come controllore effettivo, così da verificare la riduzione del gap della disuguaglianza e gli interventi strutturali. “Gli aspetti fondamentali sono 2. Primo, non è una rivendicazione da barricate, ci mettiamo a disposizione con un atteggiamento di dialogo: all’interno ci sono anche donne del governo. Il secondo punto riguarda la liberazione della forza lavoro delle donne, che sono oltre il 51% della popolazione italiana: non significa fare la carità ad una categoria di bisognosi su base welfare, ma produrre reddito e gettito fiscale. In economia si chiama effetto anticiclico, che va contro la crisi” continua Rinaldi.
Come si liberano le donne in età lavorativa? Il manifesto de Il Giusto Mezzo è articolato in tre punti: allargamento dell’offerta della cura della prima infanzia, rilancio dell’occupazione femminile, gender pay gap. Con interventi strutturali e radicati che garantiscano l’educazione dell’infanzia (un diritto della persona), il riequilibrio dell’attività di cura e soprattutto la rappresentanza di genere negli organismi decisionali. Il primo caso su cui insiste Il Giusto Mezzo è il welfare, con la copertura statale di asili nido e dei servizi di caregiving, per tradizione culturale appaltati alle donne e senza retribuzione nella maggior parte dei casi. Un sostegno portante in quest’area famigliare può garantire a un’ingente cifra di forza lavoro femminile la possibilità di fare carriera, producendo al tempo stesso introiti per lo stato (tasse) e spesa privata (consumi). L’esempio della necessità lo danno i dati drammatici del Sud Italia: “Non ci sono asili, le donne stanno a casa e non lavorano perché non hanno a chi lasciare i bambini. Ma i servizi degli asili nido sono comunali, si basano sulle tasse che vengono prodotte sul territorio: e se le donne non vanno a lavorare, non producono reddito e non pagano le tasse, quindi i servizi non vengono erogati. In qualche modo bisogna spezzarlo, e questo compito spetta allo Stato: tutti i servizi che liberano la forza lavoro sono quelli su cui spingiamo maggiormente” spiega Rinaldi. Dare fiato all’economia italiana significa impiegare le donne costrette ad accantonare la carriera per occuparsi di bambini e anziani, la cosiddetta fascia sandwich tra i 35 e i 50 anni. Il rilancio dell’occupazione femminile, appunto. “Alcuni studi dimostrano che per ogni donna che inizia a lavorare ed esce di casa, si creano tre posti di lavoro: il suo, e quelli di altre due persone, che vengono retribuite per svolgere i lavori di cura per cui lei non era retribuita. È massiccio, ci fa capire quante cose noi facciamo gratis” cita Rinaldi. Impossibile non pensare quanto il lavoro genitoriale rientri in questa casistica: il discorso culturale impone ai i padri il ruolo di portatori di stipendio, l’aspetto di cura viene appaltato totalmente alle madri. Che contemporaneamente lavorano, faticano, spendono un reddito che, pur se segnato dalle disparità salariali e dal gender pay gap, è fortemente necessario per il sostegno della famiglia. Costringere le donne a restare a casa e curare i figli non è solo condannare una famiglia a una vita di privazioni, ma significa distruggere un intero sistema economico che soffrirà la mancanza di reddito.
In concreto, le linee di erogazione dei fondi europei Next Generation EU riguardano principalmente due transizioni, digitale e green. E i temi si complicano ulteriormente: “Dobbiamo prevedere che ci siano aziende femminili che ricevano questi finanziamenti, sapere che sono settori in cui le donne sono pochissime e prevedere un accesso agevolato a tali fondi. L’altro aspetto è la formazione, per qualificarsi o riqualificarsi” prosegue Rinaldi. Gli ostacoli sono tantissimi e molti, chiaramente, di natura culturale. L’imprenditoria femminile in certi settori fa sempre fatica a ottenere credito, soprattutto se il valutatore è uomo; istituzionalmente potrebbe pesare anche la composizione delle commissioni che dovranno valutare le richieste di accesso ai finanziamenti. “Il primo passaggio è renderle commissioni eque per genere: i modelli di successo devono essere maschili e femminili. Poi, visto che le imprese femminili nei due campi sono poche, si potrebbe prevedere una quota minima accettata, non sul totale ma sulle richieste presentate dalle imprese femminili” prosegue l’economista. Di nuovo l’argomento di odio bipartisan più concentrato: le quote. “Le odiamo tutti, ma non ci sono alternative. Continuiamo a scontrarci con un bagaglio culturale enorme”. Quello che bisogna imporre al Governo è un ragionamento da filiera virtuosa. L’economia impatta sulla cultura e la cultura sull’economia, entrambe sono sostenute e alimentate da un’ottica di genere, prospettiva fondamentale per sostenere la vera ripresa economica del paese. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato di tempo di costruttori, che sono tutta la popolazione lavorativa. Ne è certa Rinaldi: “Se le donne non vengono coinvolte non ci rimettono le donne, ma tutto il sistema economico: è il passaggio fondamentale e il problema principale. La crisi del 2009 è stata da -5,6 punti di PIL. Adesso ci aspetta una crisi di -11, il doppio.