Ogni anno il primo maggio celebriamo la giornata del lavoro. La celebriamo proprio il primo maggio per ricordare la grande manifestazione tenutasi a Chicago e repressa con il sangue nel 1886. Dimentichiamo spesso però una strage che pure riguarda il mondo delle lotte dei lavoratori e che avvenne molto più vicino a noi qualche anno prima, il 6 agosto 1863.
L’officina di Pietrarsa si trovava nell’area tra Napoli, Portici e San Giorgio a Cremano ed era stata voluta dal Re Ferdinando II di Borbone nel 1830 e riconvertita alla produzione di locomotive ferroviarie nel 1843. Non dobbiamo dimenticare a tal proposito che il primo tratto ferroviario del nostro paese fu appunto quello Napoli-Portici, inaugurato nel 3 ottobre del 1839.
Le officine divennero ben presto un esempio di tecnologie di avanguardia. Nel 1845 vennero visitate dallo Zar Nicola I di Russia che ne restò talmente colpito che volle riprodurne la pianta per la costruzione del suo complesso industriale di Kronštadt. Anche il papa Pio IX visitò la fabbrica il 23 settembre 1849: a ricordo della storica visita i 500 operai vollero erigere una chiesa posta di fronte allo stabilimento terminata nel 1853 poi demolita nel 1919. Il 1845 è anche l’anno in cui venne costruita la prima locomotiva a vapore interamente in Italia (anche se sulla base di un modello inglese): questa assunse il nome augurale di Pietrarsa. Ultimato nel 1853, il complesso di Pietrarsa fu il primo sistema industriale di tutta l’Italia; all’atto della unificazione, nel 1860, contava una forza lavoro di circa 1200 unità.
Ma fu proprio a causa dell’unificazione dell’Italia che per l’officina e per i suoi operai cominciarono i problemi. Anche l’Ansaldo di Genova si occupava di siderurgia: quale conservare come industria di Stato? La scelta fu affidata a Sebastiano Grandis, ingegnere 44enne, originario di Nizza, direttore del sistema ferroviario piemontese che aveva gestito il trasferimento delle truppe sui treni nella seconda guerra d’indipendenza. L’ingegnere consegnò, il 15 luglio del 1861, una relazione in cui concludeva che i due impianti erano della stessa importanza, con Pietrarsa più ricco di macchinari e di ampi fabbricati. La scelta, però, cadde sull’Ansaldo perché ritenuto impianto «più flessibile per futuri ampliamenti». Una scelta politica che, per risparmi di costi, avrebbe in ogni modo favorito gli investimenti ferroviari nel centro-nord. L’impianto di Pietrarsa veniva definito costoso e con personale eccessivo. Fu la condanna inesorabile per i lavoratori dell’officina.
Lo Stato italiano decise una veloce dismissione: Jacopo Bozza si accaparrò tutto il blocco per un canone di appena 46mila lire annue impegnandosi a mantenere almeno 800 operai. Tuttavia, nell’estate del 1863, Bozza annunciò che non avrebbe potuto mantenere i suoi impegni. Chi restava a casa, almeno nei primi tempi, avrebbe potuto ricevere metà dello stipendio «pel conto del governo». Una forma rudimentale di cassa integrazione. Il 31 luglio, gli operai in servizio erano 458, minacciati da licenziamenti e pagati con ritardo. Una situazione di continua tensione e conflittualità dagli effetti imprevedibili, in uno stabilimento privo di prospettive future. Il 6 agosto la situazione precipitò. Alle due del pomeriggio, il capo contabile dell’azienda, tale Zimmermann, chiese al delegato di polizia di Portici l’invio di almeno sei agenti, per controllare gli operai in sciopero per ottenere lo stipendio: erano stati licenziati altre 60 unità. Al primo allarme ne seguì un secondo più drammatico: «Non bastano sei uomini, occorre un battaglione di truppa regolare». Al suono convenuto di una campana, tutti gli operai, di ogni officina dello stabilimento, si erano riuniti nel gran piazzale dell’opificio. La polizia non bastava ad evitare il pericolo di incidenti, furono allertati i bersaglieri. Il maggiore Biancardi inviò una mezza compagnia, al comando del capitano Martinelli e del sottotenente Cornazzoni. Avrebbero dovuto circondare l’opificio, ma ai cancelli trovarono gli operai. I rapporti ufficiali parlarono di minacce, insulti ai bersaglieri. La situazione degenerò in fretta: una carica alla baionetta e poi spari alla schiena sui fuggitivi. Il bilancio finale fu di quattro morti: Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri. I feriti, ricoverati all’ospedale Pellegrini di Napoli, furono invece dieci: Aniello De Luca, Giuseppe Caliberti, Domenico Citara, Leopoldo Alti, Alfonso Miranda, Salvatore Calamazzo, Mariano Castiglione, Antonio Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti.
Tutto riportato nei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, fondo Questura. Ci fu qualcuno che non riuscì a nascondere l’imbarazzo per l’accaduto: il questore Nicola Amore, futuro sindaco di Napoli, scrisse di «fatali e irresistibili circostanze». Gli incidenti vennero attribuiti a “provocatori” e “mestatori borbonici”. Le lotte sindacali non erano ancora mature. Gli operai rimasero in una condizione di totale isolamento. Due mesi dopo ci furono altri 262 licenziamenti. Anche un tentativo di raccolta di fondi per le vedove dei morti si rivelò fallimentare.
Ecco, fu quella la prima protesta dinanzi ad una fabbrica nell’Italia unita. Quelli i primi morti. Quello il nostro primo maggio. Quella la conseguenza di scelte politiche che avvantaggiarono il nord a discapito del sud. Passarono ancora 70 anni da quella terribile giornata prima che l’officina, in costante decadenza, venisse definitivamente chiusa.
Attualmente Pietrarsa ospita il Museo Nazionale delle Ferrovie dello Stato ed è possibile visitarlo nei giorni ed orari stabiliti per vedere da vicino alcune delle più belle locomotive storiche. La prossima volta che lo visiterete forse vi tornerà in mente anche della storia degli operai morti per difendere il proprio lavoro.