Pensare adesso al perché Franca Melfi ha iniziato a occuparsi di chirurgia robotica, ha del paradossale: all’inizio degli anni ’90, quando la medicina era ancora prevalentemente faccenda da uomini e dominava l’equivalenza «grande chirurgo grande taglio», le operazioni in cui potessero essere coinvolti dei robot non erano considerate qualcosa su cui investire in modo particolare. Dunque, era la tacita equivalenza, che se ne occupasse pure una donna.
Oggi, di quella chirurgia che è il presente, e diventerà sempre più il futuro, la professoressa Melfi è sia una pioniera sia una leader indiscussa. Prima al mondo ad aver effettuato un intervento toracico di questo tipo (nel 2001, su un paziente di 54 anni con una patologia polmonare), prima donna in Italia a presiedere la Siet (Società Italiana di Endoscopia Toracica), è Direttrice della Chirurgia toracica mininvasiva e del Centro robotico multidisciplinare dell’Aoup di Pisa. E potremmo aggiungere ancora: coordinatrice del Comitato tecnico scientifico del Polo di Chirurgia robotica della Regione Toscana, docente universitaria e ricercatrice pluripremiata con riconoscimenti internazionali quali il Bio WomenTech, assegnato alle donne impegnate nelle biotecnologie. Insomma, per aver iniziato anche in virtù di una sotterranea discriminazione di genere, si potrebbe dire che la professoressa Melfi rappresenta doppiamente un esempio e uno stimolo nel contesto dell’innovazione tecnologica.
Come si può descrivere ai profani la chirurgia robotica?
«Nell’immaginario collettivo in sala operatoria il chirurgo sta accanto a un tavolo su cui è disteso il paziente, con alle spalle gli anestesisti e tutto attorno gli strumentisti che passano i ferri. Nella chirurgia di cui stiamo parlando invece il chirurgo non è accanto al paziente ma è distante, in una sorta di sala di regia, da cui è collegato attraverso una console a dei piccoli bracci robotici, delle cannule, che a loro volta muovono strumenti di misura inferiore al centimetro. Il chirurgo ha quindi una sorta di protesi alle mani, ma gli strumenti sono gli stessi: forbici, pinze, bisturi. C’è la possibilità di cucire e così via».
In termini di mini-invasività e precisione i vantaggi sono evidenti. C’è un rovescio della medaglia?
«Dal mio punto di vista naturalmente ci sono solo vantaggi. Aggiungo che quando ho iniziato a praticare questo tipo di chirurgia le macchine erano – rispetto ad ora – rudimentali: all’epoca non conoscevamo nemmeno tutte le potenzialità dello strumento, e all’inizio mi colpiva soprattutto la visione immensamente ampliata, che per il genere di intervento che eseguo (al torace, accanto a organi vitali) è fondamentale. Ma i punti di forza non stanno solo nella microinvasività e nella visuale amplificata, bensì nel fatto che con questo tipo di macchine si possono eseguire interventi davvero molto complicati con una precisione e una capacità di “sguardo” molto più complesse: oltre ai movimenti downscaling c’è il fatto che si possono per esempio prevedere, e quindi prevenire, varie eventuali complicazioni. Proprio su questo fronte i miglioramenti saranno continui e l’accuratezza sempre maggiore».
Il fattore umano conta? E concretamente come si modulerà il rapporto tra chirurgia tradizionale, robotica, Intelligenza Artificiale e digital surgery?
«Il fattore umano è sempre decisivo, certo. Siamo comunque noi a comandare la macchina. Inoltre non ci dimenticheremo mai del tutto dell’uso del bisturi, e bisogna chiarire che fare chirurgia robotica non significa non fare chirurgia open: la gestualità è identica, e serve la medesima visione dei rapporti anatomici. Uno degli ambiti più interessanti da indagare – e di cui si occupano colleghi di ingegneria esperti appunto di A.I. (Artificial Intelligence, ndr) – è proprio quello che riguarda l’interazione tra intelligenza naturale e artificiale, tra uomo e macchina: il modo concreto in cui entrano in relazione, a partire dalle zone cerebrali che si attivano. Per conto mio, posso vederne le grandissime potenzialità: nel giro di pochissimo l’integrazione con la robotica sarà totale. Verosimilmente mi immagino, in un futuro prossimo, di poter fare per esempio in sala operatoria attraverso l’utilizzo dell’A.I. simulazione e formazione. Ma simulare un intervento chirurgico significa anche, come accennavamo prima, vederne le difficoltà, poterlo pianificare e potersi preparare alle complicazioni. Integrando tutti questi strumenti in sala operatoria, potremo offrire il massimo della qualità ai pazienti, perché è di questo che poi si parla».
E parlando della formazione, invece?
«È chiaro che qualità della chirurgia e formazione vanno insieme. A questo proposito, citerei dei dati pubblicati da Lancet qualche anno fa: considerando anche solo la chirurgia base (sottolineo, base: non parliamo di interventi sofisticati e di robotica) abbiamo a livello mondiale delle grandissime difficoltà a coprire gli interventi necessari su oltre 2 milioni di persone. E anche i chirurghi che bisognerebbe formare sono superiori di svariati zeri a quelli attuali. Io credo che attraverso la robotica, intesa anche come possibilità di formare e operare da remoto (perché con il 5G, che praticamente azzera i tempi di latenza, oggi è possibile) potremmo ridurre quel gap che c’è tanto nell’apportare le cure quanto nella formazione. Spenderei a questo proposito qualche parola a parte sulle possibilità di una formazione di genere: recentemente mi hanno invitato a parlare a una conferenza organizzata dalle colleghe del Kuwait, e lì come in tutta l’area del Golfo, e in molte altre zone del mondo, accedere alla formazione per le donne è un problema. Ecco, la robotica e il remoto offrono possibilità uniche anche da questo punto di vista».