Lo scienziato Umberto Veronesi, già anni prima della sua
morte avvenuta nel novembre del 2016, sosteneva che la fine dell’umanità
sarebbe avvenuta in seguito alla diffusione di un virus sconosciuto, sostanzialmente
incurabile e molto contagioso. La predizione, nel momento in cui
scrivo, potrebbe ritenersi non completamente avverata, visto che il virus
devastatore di gran parte del mondo ha un basso tasso di letalità.
Nell’analisi di Veronesi c’è anche una sorta di inquietante passaggio di
testimone: l’oncologo, cioè colui che studia “the emperor of all maladies” nei
Paesi occidentali, la malattia della vita che si allunga e del mondo benestante
e “asettico”, col problema del sovrappeso, dell’alimentazione troppo ricca e
via dicendo, cede il passo all’epidemiologo. Riconosce la maggiore pericolosità
di un’altra patologia, una patologia di tipo virale, una patologia antica e
da Paesi sottosviluppati che sono vissuti per secoli in un’inquietante simbiosi
con la natura attraverso pratiche curative pragmatiche e superstiziose.