La SVIMEZ, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, è un’organizzazione che nasce con l’obiettivo di studiare le economie del territorio, per fornire programmi di crescita alle istituzioni centrali e locali. Ogni anno stila un rapporto sullo stato di sviluppo del Mezzogiorno, in cui analizza tutti gli elementi necessari ad avere una visione completa dell’economia dell’intero territorio. Il rapporto di quest’anno, presentato lo scorso 28 ottobre, ha riportato dati davvero allarmanti. Dati che hanno iniziato a far parlare di “desertificazione industriale e sociale al Sud”. Basta dare uno sguardo ai numeri, per comprendere il fenomeno di cui si parla. Solo nel 2013 sono emigrate 116.000 abitanti, il tasso di mortalità continua a essere più alto rispetto a quello di natalità, si è registrato un aumento del 40% di famiglie sulla soglia di povertà, al Sud è stato perso l’80% dei posti di lavoro nazionali. L’intervista al Presidente SVIMEZ, il professor Adriano Giannola.
Nell’ultimo rapporto SVIMEZ si è parlato di desertificazione industriale e sociale per il Mezzogiorno, qual è il dato che più l’ha colpita, in uno scenario tanto drammatico?
«La cosa che più ci ha preoccupato, è l’aspetto demografico umano, il collegamento tra la crisi dell’economia e il progredire di conseguenze, che intaccano la struttura demografica di questo paese, in questo caso del Mezzogiorno. QQQQ QQQQuattro anni fa furono fatte delle proiezioni e segnalavano che il Mezzogiorno rischiava di perdere quattro milioni di abitanti. Sono le condizioni materiali dell’economia, che incidono lentamente sulla tenuta della struttura della popolazione. Sembra che in trent’anni, il Mezzogiorno diventerà il 27% della popolazione, che questa popolazione sarà la parte più vecchia del paese».
Possiamo dire che il Mezzogiorno negli ultimi anni sia stato dimenticato dall’agenda nazionale, che quindi non ci siano state politiche mirate ed efficaci per questo territorio?
«Credo ci sia stata un’analisi un po’ottimistica o addirittura del tutto sbagliata, su cosa voglia dire fare politiche di sviluppo, non credo ci sia una volontà d’abbandono. Penso dal 98 in poi, quando è stata varata con molta enfasi la cosiddetta “nuova programmazione”, che proponeva che il Mezzogiorno seguisse la strada dei distretti industriali, realtà esistenti nel centro-nord-est, che hanno una storia diversissima. Per cui, io e altri, che non eravamo nella SVIMEZ a quei tempi, ma la stessa associazione diceva che fosse un’illusione seguire quel modello, infatti, quest’illusione è svanita ben presto. Ci fu una visione del Mezzogiorno totalmente staccata dalla realtà e dalle esigenze reali».
Quindi, nel Mezzogiorno si è assistito alla mancanza di leggi per il territorio o all’assenza d’investimenti?
«D’investimenti pubblici senz’altro, vediamo nel rapporto il crollo degli investimenti pubblici degli ultimi vent’anni, i fondi europei sono una piccola cosa, che sostituisce la spesa ordinaria, quella spesa, essenziale per mantenere i diritti di cittadinanza. I fondi hanno un problema di utilizzazione, c’è un degrado anche della spesa pubblica, un crollo delle opere pubbliche nel Mezzogiorno, mentre anche nella crisi il Centro-Nord, resiste molto di più. Altro elemento è la filosofia contraria all’intervento pubblico, che è prevalsa dagli inizi degli anni Novanta. Lo dicevano anche gli economisti anglosassoni che si occupano di sviluppo, dicevano che fosse illusorio pensare che dare i soldi, bastasse a far ripartire l’economia da sola, invece, si è creata solo un’indipendenza. L’illusione era che l’ambiente potesse rispondere a prescindere, perché c’erano i modelli di riferimento, il famoso capitale sociale, la cooperazione, la fiducia, cose eccellenti. Nella misura in cui il sistema non è maturo per fare coagulare quel tipo di risorse verso un indirizzo preciso, si sono determinate patologie, come la corruzione e la dipendenza».
Quali potrebbero essere i primi punti da cui iniziare, per avviare la necessaria ripartenza, di cui tanto si parla?
«Innanzitutto non pensare più al Mezzogiorno come al caso particolare di un problema. Il problema del Mezzogiorno è un segnale pericolosissimo per tutta l’Italia. Il Mezzogiorno in questo momento può rappresentare un’opportunità per il paese, poiché questo territorio è la propaggine più autenticamente mediterranea del paese e, la grande opzione per l’Europa del Sud è il Mediterraneo. Il Mediterraneo è tornato a essere il mare centrale per gli scambi del mondo, adesso sarà raddoppiato Suez e diventerà ancora più importante. Tutti i traffici dell’India, del Medioriente, passano per il Mediterraneo e non si fermano lì. Noi dovremmo, assieme agli spagnoli e ai francesi, creare un’alternativa e catturare questa ricchezza, perché questi traffici, significano tante occasioni di lavoro».
Se dovessimo ricercare i motivi della situazione disastrosa in cui versa il Mezzogiorno, dovremmo partire da vent’anni fa, secondo lei dove vanno ricercate le responsabilità di questa situazione?
«Politica e amministrazione sono sempre stati un problema. E’ un problema di egemonia culturale. L’idea che l’Italia si diceva fosse, come un calabrone, non si spiega perché vola, ma vola, si è poi dimostrata un fallimento, perché appena siamo entrati nell’Euro, quando è stato impossibile svalutare, la nostra competitività, è scesa drasticamente. L’Italia ha cominciato a perdere e ristagna dal 1998, non è mai più cresciuta. Oggi lo Stato deve dare indicazioni e imporre indirizzi, poi il mercato si adeguerà. Convincere il Nord, che la vera opzione per lui, è guardare al Sud, alla logistica, alle energie rinnovabili. E’un momento difficile ma bisogna iniziare a prenderne atto».