Ci sono ricette che hanno una storia, un segreto, una tradizione, e a seconda del Paese in cui vengono cucinate, possono cambiare e modificare il sapore e l’aspetto, pur mantenendo lo stesso nome. Oggi miei cari lettori vi voglio raccontare la storia di quel pane aumentato, a metà tra la versione Super Saiyan di una pagnotta e un fungo atomico ma pacifista. Avete capito di chi parlo??
Ebbene sì, sto parlando del re delle feste natalizie, il panettone, al centro delle tavole di tutti gli italiani a fine pasto e soprattutto sotto la lente di ingrandimento di pasticceri, addetti ai lavori, critici e appassionati di gastronomia. Fra classifiche, competizioni di pasticceria e fiere dedicate, il grande lievitato meneghino è costantemente al centro della scena nel mese di dicembre, anzi, si inizia a trovare tutto l’anno. Infatti, manca più di un mese al Natale, eppure se giriamo tra gli scaffali dei supermercati e delle pasticcerie, possiamo riconoscere quel del carboidrato vestito a festa, coi canditi al posto dei lustrini e l’uvetta invece degli strass, segna sulla tavola il confine preciso tra dove finisce la pura nutrizione e inizia il vero divertimento. Così come non lo è più il pandoro. L’uno e l’altro vivono, ormai, tutto l’anno.
Se volete capire come vanno le cose in Italia in un dato anno, miei cari lettori, aspettate i giorni che precedono il Natale e visitate prima una grande pasticceria tradizionale e poi gli scaffali dedicati ai dolci di un ipermercato. Grazie all’osservazione dei panettoni artigianali – con la loro tormentata preparazione, la loro prodigiosa varietà – infatti, non soltanto è possibile afferrare meglio gli ultimi ritrovati in fatto di pregi e difetti degli italiani, ma anche farci un’idea di quello che potremmo fare per migliorare le cose, a partire dal credere più in noi stessi.
Quest’anno il bollettino è il seguente: siamo ormai un popolo così elettrico e polarizzato che, anche in fatto di dessert natalizi, non ci riconosciamo che nella tradizione più immobilista o nell’aberrazione, la devianza e il pervertimento; nell’infondata presunzione di legittimità o nell’ostentazione smaccata dell’impunità; nel lusso senza ritegno o nel low cost indecoroso; nel gigantismo o nei bonsai; nel panettone di Iginio Massari o in quello della Juve. Eppure, quanto potremmo imparare da questo pane aumentato, a metà tra la versione Super Saiyan di una pagnotta e un muffin che ha incontrato Dio. Il panettone è il più macchinoso tra i dolci complicati, ma non è un esercizio di pura astrazione o geometrizzazione, rispetto agli ingredienti di partenza, come uno strudel o una cassata. È il miracolo del cibo di tutti i giorni lievitato all’ennesima potenza che, espandendosi oltre i confini di carta da forno che gli sono stati dati, trionfando sulla gravità e sui tempi di cottura, finisce quasi per esplodere come un piccolo grande fungo, atomico ma pacifista.
Ma questa apparente spensieratezza ha un prezzo, un panettone può sembrare disinvolto, ma è il dolce premeditato per eccellenza: il manifesto poetico dei prodotti da forno, la celebrazione del superamento delle difficoltà organizzative dietro ogni cosa veramente ben cotta. Per questo, fa ancora tanta differenza il mestiere di chi impasta e inforna: lo scarto tra un panettone artigianale fatto bene e un panettone industriale prodotto male è lo stesso che separa il salto acrobatico di un tuffatore olimpionico e tua cugina che si butta a bomba da un pedalò.
Il panettone è davvero il principe del forno, nel bene e nel male. È costoso farlo bene ma è ancora più costoso sbagliarlo, e gli errori sono in agguato a ogni angolo. Un panettone è il contrario della cucina di casa, quella dove non regna il calcolo, ma il buonsenso; dove, se qualcosa va storto, puoi sempre aggiungere olio o besciamella, secondo che tu sia una madre di famiglia navigata o una nonna snaturata. Se dimentichi qualcosa, il panettone è andato e non c’è niente da fare per salvarlo. Forse non è poi così strano che un tipo così precisino sia nato in Italia, perché prende il meglio delle due principali virtù del nostro popolo: visione e tecnica. Pare sia nato da un errore di timing, nel ‘400, ed è da allora che cerchiamo di rifare, perfettamente e sistematicamente, lo stesso sbaglio.
La geopolitica del Natale si è sbilanciata su Milano con anni e anni di panettoni di tutti i tipi, esplosioni di classici, al pistacchio o al cioccolato, fino alle limited edition di panettoni estivi, vero twist spazio-temporale del consumo del lievitato natalizio. E dire che molti degli artigianali degli ultimi anni sono ben distanti dalle tradizioni meneghine. E’ ufficiale, il 2020 è l’anno del pandoro artigianale. Finalmente, verrebbe da dire. Minimalista, lontano dall’ostentazione gratuita, il pandoro sottolinea la necessità post pandemica di muoversi tra i poli cardinali di semplicità, artigianalità e sobria ricchezza interiore. Basta panettoni di tutti i tipi, bentornato pan de oro, nome tradizionale del pandoro di Verona depositato da Domenico Melegatti nel 1894, incluso oggi nei PAT (prodotti agroalimentari tradizionali italiani disciplinati dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali).
Ora vi chiederete ma che differenza c’è tra un pandoro artigianale e uno industriale? Uno vale l’altro, il sapore è quello! Ma non è così, miei cari, noi siamo abituati a mangiare il pandoro industriale, ricco di conservanti che stabilizzano il prodotto ma proviamo a mangiare uno artigianale. Come si nota la differenza?? Semplice, il profumo, innanzitutto. All’apertura dell’involucro protettivo, deve sprigionare arie di burro leggermente zuccherato e vaniglia. Ma non temete, chi non ama i dolci, può optare per la variante salata e trattare il pandoro come un pane da club sandwich: via libera a formaggio (ricotta di malga, caprini, qualcosa di più stagionato), qualche salume robusto in contrasto con il sapore burroso e delicato. Qui si svela la sua capacità rappresentativa di ogni goloso, la pace garantita ai sensi di tutti gli articoli della Costituzione Gastronomica. La nobiltà del pan de oro è in questa trasversalità minimalista. Da vestire a piacimento anche dopo Natale.”