Antonio De Bellis è, tra gli allievi di Stanzione, una figura fino a trenta anni fa quasi sconosciuta alla critica e della quale non possediamo alcun dato biografico certo, essendosi dimostrato mendace il referto dedominiciano della data di morte. Egli si staglia prepotentemente tra i più alti pittori del Seicento non solo «nostro» ma italiano. Un altro dei grandi del nuovo naturalismo napoletano, che medita ed opera, inizialmente, tra il Maestro degli annunci e Guarino, per poi virare verso Stanzione ed il Cavallino pittoricista.
Un artista minore nel limbo dei provinciali orbitanti nell’universo stanzionesco? Troppo ricco è il panorama della pittura napoletana di questi anni per poter assurgere ad una posizione di preminenza, ma per De Bellis, alla luce delle recenti scoperte del De Vito e di Spinosa, si deve almeno parlare di un minore di lusso.
A conferma dell’autografia e come guida per la collocazione cronologica, vi è in molti dipinti il particolare curioso che l’artista, al pari del Cavallino, ha la civetteria di auto ritrarsi più volte e nelle fogge più disparate, con tratti somatici che variano con lo scorrere implacabile degli anni.
Le stringenti affinità che intercorrono nella scelta delle soluzioni compositive e nella tipologia dei personaggi raffigurati, e le notevoli analogie con la Natività firmata Bartolomeo Bassante del Prado, avevano indotto il Prohaska a trasferire a questo autore una grossa parte della produzione del De Bellis.
L’identificazione della sigla «ADB» su di una roccia nel dipinto Lot e le figlie, oggi a Milano presso la Compagnia di Belle Arti, ha fugato ogni dubbio ed ha permesso di assegnare definitivamente al nostro artista tutto quel gruppo di opere che il Prohaska riteneva di Bartolomeo Bassante.
Un interessante inedito di grande qualità va ad incrementare il catalogo di Antonio De Bellis: un Angelo custode (fig.1) conservato in una collezione privata di Modena, che richiama a viva voce la sua autografia grazie a calzanti confronti con opere certe dell’artista.
Il primo termine di paragone è costituito dal San Sebastiano curato dalle pie donne (fig.2) del museè des Beaux Arts di Lione, con il quale condivide il mantello, identico non solo nel colore, ma anche nell’eleganza con cui sono definite le pieghe (fig.3).
Il secondo raffronto va istituito, soprattutto per il volto sovrapponibile, con un’Immacolata Concezione (fig.4) conservata nella seconda cappella a sinistra dell’ingresso nella chiesa napoletana di San Carlo alle mortelle, dove si trova il più importante ciclo di dipinti del De Bellis, che furono oggetto di uno studio approfondito da parte di Raffaello Causa nel suo monumentale saggio sulla pittura napoletana seicentesca, pubblicato nel 1972 nel V tomo della Storia di Napoli.
Lo studioso annusò nel De Bellis la stoffa del pittore di razza, «sivigliano» a metà strada tra il Velázquez e lo Zurbaran delle Storie di San Bonaventura. Egli esaminò i quadri della serie carolina con le storie del santo, nella chiesa dei Barnabiti di San Carlo alle Mortelle e pensò, sulla falsariga del racconto dedominiciano, che i dipinti fossero stati realizzati durante la peste, per il crudo realismo di alcune scene quasi da reportage fotografico e per la constatazione di alcune tele lasciate incompiute: «non tutti siano di una stessa perfezione, perciocché, alcuni di essi non furono terminati ma dipinti alla prima, così restarono per sua immatura morte» (De Dominici). Il Causa ritenne di grande livello il San Carlo che comunica gli appestati e il San Carlo che visita gli infermi. Stupendi brani di pittura tra i documenti più icastici della peste e tali da poter gareggiare con i celebri bozzetti del Preti eseguiti per le porte della città. «Una figura, un ritratto, un gioco compositivo che rivela l’indipendente di gran classe, punto zenitale di una continuità di grande cultura locale» (Causa).
L’iconografia della serie è nuova ed originale ed alcuni episodi sono stati interpretati solo grazie al contributo conoscitivo che fornì Boris Ulianich, indiscusso pontefice degli studi agiografici. Alcune immagini sono straordinarie e soffuse da una struggente aria di malinconia e di tristezza, come il San Carlo in preghiera con una caterva di cadaveri alle spalle, che rendeva ridicolo al confronto l’analogo soggetto «caramelloso e azzimato», dipinto quarant’anni prima dalla pittrice Fede Galizia per l’altare maggiore. E che dire del dipinto ove il santo dà in carità il suo oro per sfamare i poveri, nel quale «il ritratto del prelato col sacchetto di scudi d’oro entra a buon diritto tra i personaggi più incisivi della pittura seicentesca» (Causa).
La meteora del De Bellis sembrava che dovesse sparire in un attimo nei giorni tumultuosi dell’epidemia, ma il rinvenimento di alcune sue opere siglate e collocabili con certezza agli anni successivi alla peste, tra il 1657 e il 1658, ci hanno dato la certezza che l’artista aveva continuato a lavorare.
Il Bologna, sulla base di considerazioni stilistiche, aveva già da tempo predatato di un ventennio il ciclo carolino, che in seguito, grazie a dei documenti reperiti dal De Vito presso l’archivio dei padri Barnabiti di Milano, ha trovato una definitiva collocazione cronologica agli anni 1636-39.
La formazione del De Bellis viene spostata quindi alla metà degli anni Trenta, con un percorso del tutto affine a quello seguito dal Cavallino, del quale è probabilmente coetaneo. In seguito dopo le esperienze vigorosamente naturaliste, negli anni Quaranta sulla guida delle soluzioni di brillante e luminoso pittoricismo del Grechetto e del Poussin giunse a risultati di così alta eleganza formale e ricercatezza cromatica da essere a lungo, nelle sue opere migliori, confuso con Cavallino.
La tela in esame va di conseguenza collocata cronologicamente intorno agli anni Quaranta, un momento felice nel suo percorso artistico.
Negli ultimi anni della sua attività, il De Bellis, per soddisfare le esigenze di una committenza pubblica legata a soluzioni convenzionali di pittura religiosa di carattere devozionale, dovette variare nuovamente il suo stile. Una progressiva stanchezza ed uno scadimento di qualità si avvertono infatti nelle sue ultime tele come la Trinitas terrestris, siglata, nel santuario della Madonna di Sunj e la Madonna in gloria tra i Santi Biagio e Francesco d’Assisi, anch’essa siglata e conservata nella chiesa del convento dei Domenicani a Ragusa, l’odierna Dubrovnjk, la quale per alcuni particolari topografici nella dettagliata pianta della città è databile con precisione tra il 1657 e il 1658.