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ARTURO SCOTTO(LEU):” L’ON ROSTAN LASCIA IL GRUPPO DI LEU PER ADERIRE AL PARTITO DI RENZI, CON LA STESSA DISINVOLTURA CON CUI SI CAMBIA UN PAIO DI SCARPE.”

di Arturo Scotto

Sento il dovere di chiedere scusa.
Agli elettori e ai militanti che hanno creduto nel progetto di Leu alle elezioni del 2018.
Pochi o tanti che fossero, comunque oltre un milione di persone hanno votato, hanno lottato, hanno sperato.
Gli abbiamo sottoposto un ventaglio di candidature di valore, di specchiata coerenza, di grande forza evocativa.
Ma anche persone che si sono trovate evidentemente lì per caso, magari più per calcolo che per convinzione.
E il flipper di una legge elettorale assurda e truffaldina ha fatto il resto.
Eppure il programma di Leu era abbastanza chiaro.
Poche erano le zone d’ombra.
Se proponi l’abolizione del Jobsact, l’università accessibile a tutti, lo stop alle privatizzazioni selvagge, discontinuità con i disastri della buona scuola, la difesa della centralità del Parlamento contro il presidenzialismo strisciante, significa che sei alternativo a tutto quello che ha rappresentato Renzi fino al 2018.
D’altra parte, se non abbiamo fatto l’alleanza con quel Pd all’epoca, un motivo ci sarà.
Abbiamo fatto errori, non siamo riusciti a dare un seguito credibile a quella esperienza, ma non eravamo tutti matti.
La frattura con il Pd targata Renzi era nota a tutti: se ne leggeva sui giornali, se ne parlava nelle trasmissioni televisive, se ne discuteva persino in qualche bar e in qualche piazza.
E quei motivi – come si vede anche in questi primi mesi di governo giallorosso – permangono.
Renzi ha scelto la strada dell’interdizione permanente, la logica del più uno su tutte le questioni, la follia di segare il ramo su cui è seduto il Governo Conte.
Un leaderismo esasperato che ha avuto come obiettivo principale – da quando ha fatto irruzione nella scena pubblica – quello di picchiare duro sulla sinistra politica, sul mondo del lavoro, sulla Costituzione.
Una escrescenza di destra che ha avuto la possibilità – per debolezza innanzitutto nostra, non per merito suo – di costruire un’Opa sullo schieramento progressista e modificarne il DNA.
Evidentemente, qualcuno all’atto dell’accettazione della candidatura, non si era accorto di tutto questo.
Passava di lì per caso, nella convinzione che una posizione vale l’altra.
Insomma, Renzi vale Bersani, Boschi vale Speranza, Grasso vale Lotti.
E potrei continuare all’infinito.
Oggi l’on. Michela Rostan lascia il gruppo di Leu per aderire a Italia Viva.
Con la stessa disinvoltura con cui si cambia un paio di scarpe.
Lo aveva fatto prima anche la Occhionero, con motivazioni analoghe.
Ovvero nessuna motivazione, se non evidentemente ottenere un quarto d’ora di celebrità in TV e sperare di fare un altro giro di giostra.
Nel caso specifico, Rostan mette persino in discussione l’operato del Ministro Speranza, che si sta battendo come un leone per salvaguardare la sanità pubblica, dopo anni di tagli e di austerità.
Una forma di ingenerosità intollerabile.
Ho detto più volte di essere contrario ad eliminare il vincolo di mandato dalla Costituzione.
Per fortuna nemmeno più il Movimento Cinque Stelle ci prova.
Eppure davanti al trasformismo più becero qualche domanda te la poni.
Persino le certezze più granitiche rischiano di crollare.
Soprattutto se consideri la politica come un’avventura collettiva e non come una vicenda personale.
Ma forse un rimedio c’è: occorrerebbe introdurre il “vincolo di dignità”.
Non serve scrivere una nuova legge o modificare la Carta Costituzionale, basterebbe imporre una regola semplice semplice: guardarsi allo specchio ogni mattina e domandarsi se servi la patria con disciplina e onore.
Perché se sei eletto con un programma di sinistra, non puoi finire in un partito che coltiva un progetto liberista che guarda a destra.
Questo significa in parole povere “vincolo di dignità”.
Innanzitutto, verso una comunità che ogni giorno lavora gratuitamente perché spinta da una molla che è potente e insopprimibile: si chiama passione politica.
Esattamente quello che diceva Gramsci: la politica è l’organizzazione delle passioni.
Che è più forte di qualsiasi carica elettiva.
E che non chiede altro che il recupero di una dimensione etica della rappresentanza, perché fare il parlamentare della sinistra non è uguale a fare il parlamentare di qualsiasi altra forza politica.
Un luogo dove gli eletti pesano, partecipano e contribuiscono anche economicamente alla vita dell’organizzazione, ma dove conta, parla e decide anche il semplice iscritto.
Non significa uno vale uno, significa che i partiti sono popolo, non solo lo strumento per la circolazione delle elite.
Gli iscritti non servono solo nelle campagne elettorali per aprire un comitato, ma anche e soprattutto nella costruzione quotidiana di un partito, di un movimento di idee, di un’associazione di donne e di uomini.
Invece no.
Per Rostan come per Occhionero la politica probabilmente è come l’asta del calciomercato.
Non esiste limite all’offerta.
Conta il cartellino.
Si può finire anche alla Lega, se l’ingaggio e’ convincente.
Ma la colpa non è soltanto di chi se ne va, la colpa è anche nostra, di chi li candida.
Non ridaremo un senso alla sinistra italiana se non riconosciamo che anche noi siamo un pezzo della crisi della sinistra: che talvolta confonde il ceto politico con l’elettorato, il notabilato con il radicamento territoriale, un cognome con i voti.
Eppure io ci credo ancora.
Credo nella forza della politica rispetto alla debolezza della carne.
Credo nel partito politico come soggetto che trasforma la società.
Credo in Articolo Uno che – pur nelle difficoltà di questi anni – resta una comunità bella in cui militare.
Il resto – assistendo a questa rovinosa perdita di senso – mi ricorda soltanto la strofa di una bella canzone di Vasco Rossi: “sì stupendo, mi viene il vomito, è più forte di me”.
Tutto qui.

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