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Babbo Natale non si scorda di nessuno

Quello del 2020 sarà un Natale diverso. Continuiamo a sentirlo ripetere e l’attesa è già tinta di sfiducia. Eppure qualunque siano le restrizioni poste alla libertà di movimento e di incontro così come alla possibilità di scambiarsi regali e alla voglia di condividere la tavola e gli affetti, si può provare a immaginare da subito come reinventare queste feste. Senza ottimismo miope, ma anche senza rimpianti ostinati e perdenti. Si parte dalla realtà provando a vedere se, come scrive Ugo Morelli, il limite è dove ciascuno comincia, non dove qualcosa finisce perché “quel che mi manca è ciò che posso ancora diventare”.

Miei cari lettori, pensateci, quest’anno abbiamo aspettato questo dicembre, in modo particolare, un po’ come se fosse un regalo, una sorpresa, un barlume di speranza. Il mese, che ti fa tornare bambina, che ti fa venire la voglia matta di cambiare tutto, di ricominciare a vivere dopo tutto quello che hai passato, anche se pensi che sia difficile, anche se tutto il mondo ti sembra contro, anche se non sorridi più da tempo.

In questo momento è stato molto chiaro a ognuno di noi quello che diceva Freud: “L’io non è padrone in casa propria”. Ovvero: qualcosa ci è sfuggito, non lo abbiamo controllato. E ha messo in crisi l’idea di poter dominare tutto, ha sovvertito l’idea di dominare qualsiasi evento esterno, mettendo così in mostra la nostra fragilità, e dunque causando un profondo smarrimento. Eravamo immersi in una fase di grande narcisismo di cui forse, non ce ne rendevamo neppure conto. Poi la caducità si è presantificata sotto forma di malattia. E ci ha costretto sia a sottolineare i nostri limiti, sia alla necessità di una misura, sia a una riformulazione del soggetto a discapito dell’avere in favore dell’essere. Ora abitiamo un momento particolarissimo della nostra vita, anche saturo di ambivalenze. Siamo straziati: da un lato soffriamo per il dolore di avere perso delle persone care e dalla paura di ammalarci e morire, dall’altro siamo terrorizzati dal futuro di un’economia che va andando in frantumi.

Percorriamo lo spavento del perdere e del perderci. E allora, o torniamo al valore dell’essere e dell’esserci, che rimetta in gioco il proprio desiderio di soggettività. E qui interviene il nuovo concetto di dono: come diceva la grande scrittrice e pensatrice Etty Hillesum, giustiziata troppo giovane nei campi di concentramento, «vi è un grande valore nel riposare in sé stessi». Mi viene quindi da dire che il dono, oggi, in questi giorni di ripensamento, può essere solo la conseguenza di un lavoro di riflessione. E quindi un dono che prenda senso lavora intorno alla cura della persona, al facilitarle proprio quel riposo. Non abbiamo cinema, teatri, musei, ristoranti. Ci è negata la dimensione conviviale, addirittura il toccarci o l’abbracciarci. Ci viene detto che possiamo riunirci in pochi, quindi dobbiamo abbandonare anche il luogo dove si svolgeva il rito – perché è un rito e gli esseri umani vivono di riti, perché sono loro a tenere lontane le pulsioni di morte – dello scambio dei doni. Ci occorre un dono che curi, in grado di farci riscoprire il proprio talento, la propria aspirazione più profonda che magari non avevamo potuto o voluto far affiorare prima, quando eravamo troppo presi dalla produzione di altri oggetti. Penso a un dono che riverberi ed evochi la parte nascosta di noi, che la coccoli e la medichi, rivelandosi portatore di una pulsione di vita.

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