Franz West riposa sul divano ritratto in una piccola foto a parete, mentre vicino, nella prima sala del Padiglione Centrale, c’è l’atelier di Dawn Kaspar a cui segue il multietnico fare di migranti e rifugiati impegnati nella realizzazione di lampade da “portare a casa”, in cambio di un’offerta sostenuta, nel progetto di Olafur Eliasson “Green light”. Comincia così “Viva Arte Viva”, l’esposizione internazionale d’arte a firma Christine Macel, promossa dalla Biennale di Venezia, lungo un percorso con 120 artisti.
“E’ una Biennale – dice il presidente Paolo Baratta – che parla delle nostre abitudini, consuetudini, sogni o utopie”. Una esposizione dove l’artista è pieno protagonista del suo “otium” e del suo “negotium”, del suo prendersi il tempo e del suo operare nel fare arte. Ai Giardini, nel Padiglione Centrale, Macel chiama a interrogarsi su quel momento in cui “nasce l’opera d’arte”, quel tempo dove “vagabondaggio mentale e ricerca” sono fondamentali. E nel padiglione iniziale ci sono le carte da parati fatte sui disegni del premier albanese Edi Rama, artista divenuto politico a tempo pieno; ci sono libri raffigurati, volumi in tessuto, le opere-diari di Abdullah Al Saadi. Emblema “delle Gioie e delle Paure”, la sequenza di ritratti di Marwan con un soggetto – a dirla con la curatrice – “che si decompone lentamente, si torce, si allunga, sparisce in frammenti colorati, perdendo ogni volume”.Una Biennale, insomma, che attraverso gli artisti vuole recuperare “un umanesimo”.
“Un umanesimo – dice Baratta – nel quale l’atto artistico è a un tempo atto di resistenza, di liberazione e di generosità”