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“Bisogna sventrare Napoli!”. La vera storia del Risanamento

La promiscuità, il sovraffollamento, il mancato rispetto delle più elementari regole dell’igiene sono state nei secoli le cause primarie del diffondersi nella città di Napoli di disastrose epidemie, che talune volte hanno falciato quote cospicue della popolazione.

Tra queste il colera è il più diffuso, esplode sempre d’estate tra luglio ed agosto, quando le temperature raggiungono i loro picchi annuali e colpisce per primi gli abitanti dei bassi, dove le precarie condizioni di vita favoriscono la diffusione del contagio.

L’ultimo capitolo di questo dramma infinito si è avuto nel 1973, quando il vibrione del colera, complice la scellerata abitudine di consumare mitili non cotti, prelevati dal mare cittadino, ridotto da tempo ad una penosa cloaca a cielo aperto, ha di nuovo dilagato in città e provincia chiedendo il suo implacabile pedaggio di vittime.            E purtroppo in questa occasione i mass media hanno dilatato per tutto il globo l’immagine di una città perduta, condannata ed irrecuperabile, per via anche dei suoi abitanti più rozzi, immortalati dalle telecamere mentre si pascevano scriteriatamente di cozze appena prelevate dagli scogli puteolenti di via Caracciolo.

Ho ricordi personali ancora vivi del morbo, dal vero e proprio tumulto scoppiato nel cortile dell’ospedale di Cava de’ Tirreni per accaparrarsi il vaccino dal quale  fui travolto assieme ai colleghi medici e mi salvai unicamente perché iniettammo soluzione fisiologica una volta finite le dosi o la delusione patita di vedere al mio matrimonio, celebrato a settembre col morbo da poco terminato, disertato dalla totalità degli invitati non napoletani spaventati e perfino da un mio zio residente a Roma, che doveva fungere da compare d’anello.

Le colpe di queste infinite epidemie, che fanno somigliare Napoli ad una città del terzo mondo, vanno equamente divise tra amministratori ed amministrati, presenti e passati. Nei secoli nessuno è riuscito a regolare la crescita tumultuosa della città, cercando di limitare la sproporzione tra numero degli abitanti e superficie a disposizione, per cui una quota significativa della popolazione è costretta a sopravvivere in condizioni precarie, sia che occupi degli squallidi bassi nei vicoli senza luce del centro antico o i disumani casermoni delle periferie da Scampia a Secondigliano.

Un esempio storico di amministrazione mirata alla speculazione ed a privilegiare le classi sociali più agiate è fornito dall’operazione del Risanamento, che seguì all’ennesima epidemia del 1884, la quale provocò nel solo capoluogo 7000 vittime del colera. Anche allora, come si è pervicacemente ripetuto in seguito, speculatori di ogni risma, politici corrotti o corruttibili, usurai e profittatori si diedero appuntamento per sfruttare l’emergenza, un’abitudine inveterata, che in tempi più vicini ha addirittura programmato la gigantesca struttura della protezione civile, autorizzata ad agire al di fuori di ogni regola concorsuale ed edilizia.

Ma torniamo al passato: nella mastodontica opera di ristrutturazione del Risanamento vennero abbattute 17000 abitazioni e scomparvero sotto i colpi di piccone anche 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi. Prese forma il Rettifilo lungo quasi due chilometri, che tagliò letteralmente in due il ventre di Napoli, ma non si costruirono come promesso case economiche, per cui la popolazione più povera fu costretta a ritornare nei bassi con l’unica differenza che dove abitavano in sei o otto, dovettero arrangiarsi in dieci o dodici. Nel frattempo il mercato immobiliare entrò in fibrillazione con aumenti vertiginosi dei prezzi  e guadagni stratosferici per i soliti speculatori, tra i quali si distinsero i piemontesi, che realizzarono una fortuna tra appalti e subappalti.

Ne derivò una celebre inchiesta, venne istituita una commissione, che mise in luce l’intreccio tra malaffare e politica, ma non si riuscì a condannare nessuno.
La storia si è ripetuta altre volte e sempre con gli stessi risultati, per cui non ci resta che attendere la prossima epidemia, nel frattempo ci dobbiamo contentare di una diffusione di epatite virale che non ha eguali nel mondo occidentale.

Lasciamo da parte i ricordi personali e parliamo ora della gigantesca operazione di speculazione finanziaria che interessò la città di Napoli dopo il 1884.

Il dibattito sull’ urbanistica continua a essere problematicamente vivo nella città. Tuttavia restano stranamente poco conosciute o non approfondite alcune vicende come quella del “Risanamento” nella Napoli della seconda metà dell’ Ottocento. Essa presenta agganci e riflessi con il grande piano di ristrutturazione di Parigi (1852-1869), realizzato dal barone urbanista Haussmann su commissione di Napoleone III . Sembra quindi interessante riportare alla memoria le caratteristiche dell’ operazione “Risanamento”, che seguì al colera scoppiato a Napoli nel 1884 e si concretizzò nel primo programma di sventramento del centro storico di Napoli.
Si può denominare il “quartiere angioino” l’area costituita dai cosiddetti “quartieri bassi”, oggetto dell’ operazione “Risanamento”: Porto, Pendino, Mercato e Vicaria. «Bisogna sventrare Napoli» fu lo slogan che supportò la richiesta al governo del sindaco Nicola Amore della Legge speciale per Napoli, approvata nel 1885. E lo slogan ripeteva l’ esclamazione del presidente del Consiglio dei ministri, Agostino Depretis, venuto a Napoli assieme a re Umberto I nell’ anno del colera. Essa richiamava il titolo del romanzo della Serao: “Il ventre di Napoli” (1884), che sollecitava a gran voce il salvifico intervento nel ventre infetto della città. Il programma urbanistico rifletteva la cultura dell’ Ottocento, in cui non era ancora sorto il problema dei valori ambientali e della tutela dei centri storici. Pertanto i predetti quartieri malsani e da bonificare – non vi erano né acqua né fogne, quindi le condizioni igienico sanitarie erano pessime – furono risanati con lo “sventramento” senza alcuna remora etico sociale circa la sorte degli abitanti. Questa la classe politica “intelligente e aperta”. In sostanza, la classe dirigente borghese identificava solo nella rendita fondiaria la più concreta forma di reddito rifiutando la conversione industriale e commerciale della rendita che avrebbe potuto determinare anche l’ evoluzione sociale. Perciò la distruzione dei quartieri “bassi” assicurava l’ acquisizione dei suoli per lucrare nuove rendite immobiliari. Del resto anche gli intellettuali sostennero l’ intervento (persino Benedetto Croce, che poi a cose fatte si ricredette). Ma sentite cosa esclama Raffaele D’ Ambra (“Napoli antica”, 1889, con funeree illustrazioni “a ricordo” di squarci dei quartieri da sventrare). Egli esorta a espellere la plebe dal centro storico «perché le evoluzioni sociali e sanitarie lo esigono irreparabilmente». La sezione di Architettura degli “Scienziati Artisti e Letterati” giudicò Castel dell’ Ovo letteralmente «un rudere che non ha più ragione di essere in piedi». Per fortuna il Comune non mise in atto tale ridicolo giudizio. La commissione comunale per la conservazione dei monumenti si accontentò che venissero trasferiti nel Museo di Donnaregina dipinti, statue e sepolcri delle 63 chiese e cappelle destinate alla demolizione sorvolando che erano per lo più di età medievale. Nel 1886 fu approvato il progetto dell’ ingegnere capo del comune Giambarba, che prevedeva una grande e larga strada, il Rettifilo: l’ asse attorno a cui ruotava l’ intera operazione di sventramento. Era la riproposta del modello urbanistico parigino realizzato a Parigi da Haussmann, dopo il tremendo incendio che distrusse quella città. Già l’ architetto Alvino aveva proposto un analogo progetto, ma si levò la voce isolata di Luigi Settembrini (1868), il quale opponendosi dichiarò che il modello parigino rispondeva al programma del dispotismo di Napoleone III, che aveva bisogno di strade larghe per sedare i moti di rivolta popolare e «per caricare il popolo con la cavalleria e la mitraglia». Proponeva invece «di bonificare i quartieri popolari gradatamente e diradando man mano quelle affollate abitazioni ». Ma tornando al “Risanamento” lo stesso Giambarba nel 1887 scrive allarmato: «La febbre dell’ acquisto dei terreni ha invaso gli speculatori, si sono comprati fondi duplicandone il valore e ciò ha menato a un aumento sensibile nei prezzi di rivendita delle aree edificabili». Insomma l’ operazione si convertì da un intervento di pubblica utilità a una colossale speculazione edilizia privata. E il Comune, per evitare di farsi carico della tutela degli abitanti non abbienti, favorì la nascita della “Società per il Risanamento” che provvide subito a “gettare sul lastrico” migliaia di famiglie: 87.500 abitanti circa vennero “sradicati”. I più fortunati si trasferirono in periferia, gli altri si ammassarono nei vicoli limitrofi e persino nelle grotte sul pendio di monte Echia. Con sgomento la Serao pubblicò, dieci anni dopo, un secondo libro, il “Paravento”, e così definì la cortina dei grandi palazzi borghesi che servivano a nascondere l’ accresciuta miseria e l’ abbandono del popolo napoletano. Infine tale tragedia sociale non ha ispirato alcun romanzo, né dramma teatrale, né opera lirica, che sarebbe potuta essere rappresentata al San Carlo, a proposito del quale si attende da tempo  un rilancio.
Approfondiamo ulteriormente l’argomento.

Con il nome di Risanamento ci si riferisce al grande intervento urbanistico che mutò radicalmente e definitivamente il volto della maggior parte dei quartieri storici, in alcuni casi (Chiaia, Pendino, Porto, Mercato, Vicaria) sostituendo quasi totalmente le preesistenze, talvolta anche di gran valore storico o artistico, con nuovi edifici, nuove piazze, nuove strade.

L’intervento, ipotizzato sin dalla metà dell’Ottocento, fu portato a compimento a seguito di una gravissima epidemia di colera, avvenuta nel 1884. Sotto la spinta del sindaco di allora, Nicola Amore, nel 1885 fu approvata la Legge per il risanamento della città di Napoli e il 15 dicembre 1888 venne fondata la Società pel Risanamento di Napoli(confluita dopo varie vicissitudini nella Risanamento S.p.a.): allo scopo di risolvere il problema del degrado di alcune zone della città che era stato, secondo il sindaco Amore, la principale causa del diffondersi del colera.                                     Si decise l’abbattimento di numerosi edifici per fare posto al corso Umberto, alle piazze Nicola Amore e Giovanni Bovio, alias piazza Borsa (fig. 10), via A. Depretis e alla Galleria Umberto I (fig. 11). In realtà alle spalle dei grandi palazzi umbertini la situazione rimase immutata: essi infatti servirono a nascondere il degrado e la povertà di quei rioni piuttosto che a risolverne i problemi.                                                                                Nonostante gli studi e i progetti per una risistemazione urbanistica della città, e nonostante il colera fosse scoppiato ben tre volte in meno di un ventennio (nel 1855, nel 1866 e nel 1873) una nuova epidemia si diffuse nel settembre 1884 con estrema violenza nei quartieri bassi e propagandosi in misura minore anche nel resto della  città. Per la prima volta, sulla scorta dell’emozione provocata nell’opinione pubblica nazionale dalla tragedia, si delineò quindi un intervento governativo che risolvesse definitivamente gli annosi mali della città. Agostino Depretis, presidente del Consiglio, dichiarò allora solennemente che era necessario “Sventrare Napoli”(fig. 12), coniando così il neologismo sventramento (ispirato dalla lettura della prima edizione de “Il Ventre di Napoli” di Matilde Serao) che si applicò da quel momento alla principale operazione di bonifica da effettuare; termine che poi fu esteso a tutte gli interventi urbanistici simili compiuti in Italia in quegli stessi anni.
In occasione della visita di Umberto I ai cittadini colpiti dal morbo, si parlò della bonifica dei quartieri bassi. Fu allora che si delinearono i principali interventi da realizzare, tra cui la creazione di un’efficace rete fognaria per eliminare il pericolo dell’inquinamento del suolo per le infiltrazioni delle acque infette. Era inoltre necessario ottenere un’abbondante erogazione d’acqua attraverso l’esecuzione dell’acquedotto del Serino e pianificare lo sventramento e la bonifica dei quartieri bassi, da ottenersi mediante una strada principale dalla stazione centrale al centro cittadino e una rete viaria minore ad essa afferente che favorisse la circolazione verso l’interno della brezza marina; inoltre si auspicava la creazione di un quartiere di espansione a nord della città.
Si trattava, come si è visto, del rilancio di temi ricorrenti da decenni, questa volta imposti dalla gravità cui era pervenuta la situazione igienica. La necessità inderogabile di una bonifica della città e in particolare dei quartieri bassi era avvertita dalla classe dirigente, ma, purtroppo, ogni soluzione al problema era rimasta, per tutte le amministrazioni che si erano susseguite, allo stato di enunciato programmatico, essendone la fase esecutiva perennemente impedita da difficoltà di carattere politico ed economico. La situazione economica era d’altra parte gravissima, dato che il Comune era stato costretto, dopo l’Unità d’Italia, a farsi carico di tutte le spese precedenti al 1860, compreso il passaggio dall’illuminazione ad olio a quella a gas e le spese di esproprio dei terreni di Corso Vittorio Emanuele e Corso Garibaldi. Il problema della sistemazione della rete fognaria non era mai stato adeguatamente affrontato.

Il 19 ottobre 1884 Adolfo Giambarba (futuro responsabile dell’elaborazione dei progetti) presentò al sindaco un progetto accompagnato da relazione e computi metrici, nonché da dati statistici circa lo stato dei fabbricati, la destinazione del suolo e delle abitazioni, per il risanamento dei quartieri bassi e l’ampliamento ad oriente della città.  Il progetto di Giambarba polarizzò l’attenzione del Consiglio comunale e dell’opinione pubblica: in esso, la bonifica era perseguita attraverso una strada rettilinea – che sventrava i quartieri Porto, Pendino e Mercato – con inizio in via Medina, al suo incrocio con via San Bartolomeo, ove si creava una piazza ottagonale da cui partiva una strada verso via Toledo. Lungo il suo percorso erano previste sedici strade ortogonali ed altre parallele ad esse, dando luogo ad una trama viaria che incideva su buona parte del tessuto urbano preesistente; si prevedeva, inoltre, un ampliamento della zona portuale tramite colmate.

Per le strade afferenti a Piazza Garibaldi era prevista un’ampiezza di 30 metri e una fascia di esproprio di 50 metri mentre per le traverse del Rettifilo una larghezza di 12 metri; il livello del piano stradale era innalzato di 3 metri e mezzo, adoperando il materiale delle demolizioni, onde costruire una nuova rete fognaria. A completare il disegno del nuovo piano, il Corso Garibaldi era prolungato sino all’Albergo dei Poveri.

Altre polemiche nacquero poi circa la ristrutturazione del sistema fognario, ma finalmente, nel giugno del 1884, la proposta di Giambarba fu approvata e, il 17 febbraio 1885, confermata. Il 10 maggio dello stesso anno si ottenne un altro importante risultato ai fini del risanamento cittadino, con l’inaugurazione dell’acquedotto del Serino.

Il 27 novembre 1884 il presidente del consiglio Agostino Depretis presentò alla Camera dei deputati un disegno di legge in quindici articoli costituenti i “Provvedimenti per Napoli“, che fu promulgata il 15 gennaio 1885.

Fu quindi denunciato, per la prima volta e già prima dell’inizio dei lavori, l’effetto della legge 1885: essa aveva provocato a Napoli una speculazione sui suoli fino ad allora sconosciuta. Il consigliere Enrico Arlotta enfaticamente dichiarò: “Dopo l’invasione colerica e l’iniziativa del Municipio per combattere le cause di tanta sciagura, la speculazione di tutta Italia si è riversata sulla Città di Napoli. La speculazione che a volte ha colpito i valori dello Stato, altre il debito pubblico, oggi ha preso di mira i suoli edificatori”. E il Giambarba confermando, aggiunse: “La febbre dell’acquisto dei terreni su larga scala ha invaso gli speculatori, si sono comprati fondi decuplicandone il valore e ciò doveva menare ad un aumento sensibile nei prezzi di rivendita delle aree edificabili”.

La speculazione e la possibilità di imponenti lavori avevano del tutto trasformato il mercato edilizio napoletano: grosse società immobiliari avevano, infatti, intuito la possibilità di proficui investimenti, generando negli amministratori cittadini il timore di superare le spese previste, dal momento che gli espropri costituivano la voce passiva di maggiore entità.

Essendo stati i cento milioni previsti dalla legge dilazionati in dodici rate annuali, sarebbe stato logico considerare il valore delle espropriazioni al momento dell’erogazione delle rate: ciò era però improponibile, a causa del continuo aumento di valore dei suoli. Era impossibile avere elementi certi di valutazione, né d’altra parte, si poteva contrarre un nuovo prestito che anticipasse la sovvenzione da parte dello Stato, poiché una simile situazione avrebbe comportato il pagamento di interessi che avrebbero gravato con nuove tasse sui contribuenti napoletani.

Era dunque necessario un solo concessionario che si assumesse i tre punti essenziali dell’opera (espropriazioni, proprietà dei suoli, nuove costruzioni) con tutti i rischi che comportavano: le espropriazioni potevano superare i cento milioni (senza contare i lavori per le fognature); era richiesto un rapido svolgimento, poiché il rimborso era previsto in 10 anni; era necessario, evidentemente, cedere al concessionario i suoli di risulta per le nuove costruzioni, al fine di consentirgli di ricavare un utile dai lavori.

Il concessionario prescelto doveva inoltre coincidere con una società anonima “potente e vigorosa”, di cui si sperava facessero parte finanziatori locali, che possedesse il capitale iniziale di 30 milioni necessario per cominciare le espropriazioni. Un rigoroso capitolato avrebbe cautelato i rapporti tra il Comune e la società, al fine di salvaguardare gli interessi dei proprietari dei fabbricati da espropriare.

Per evitare che il concessionario costruisse prima nei nuovi quartieri, dove il guadagno era certo e non vi erano fabbricati da espropriare (nella realtà si verificherà proprio l’opposto, costruendo nelle zone centrali e trascurando le aree di ampliamento), il Comune si impegnava a controllare che fossero edificate abitazioni economiche nel quartiere orientale, secondo quanto già previsto da Ferdinando II.

Si giunse così al capitolato in 40 articoli approvato dalla giunta comunale il 2 marzo 1887, sindaco era ancora Nicola Amore.

Vediamo ora come interpreta la vicenda Angelo Forgione, un giovane quanto preparato napoletani sta, a cui diamo la parola. Egli parte da lontano.

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