La riforma del Senato e quella del Titolo V sono una cosa seria. Non si cambiamo 45 articoli della Costituzione con un diktat o sulla base di un accordo extraparlamentare. Cambiare il Paese dopo anni di immobilismo va bene, ma quando è in gioco la Costituzione, la “velocità” non può diventare un valore irrinunciabile. Bisogna procedere con decisione ma anche con responsabilità e saggezza. E poiché si parla di grande riforma, nuova legge elettorale, revisione del Titolo V e modifica del Senato non possono essere affrontate separatamente, ma con un approccio coerente e sostenibile. Proprio perché le riforme sono necessarie e urgenti, occorre impostare bene il confronto, in Parlamento, tra le forze politiche e nello stesso PD. Le primarie, qui, non c’entrano niente. L’ipotesi, oggi fortemente sostenuta dal premier, di un Senato delle Autonomie è, a mio giudizio, preferibile. Ma il Senato delle Autonomie non può diventare un il “secondo lavoro” di sindaci e governatori, oppure una sorta di Cnel delle Regioni. Esso ha senso se anzitutto governa il federalismo cooperativo italiano e se diventa il luogo privilegiato del confronto istituzionale tra Stato e Regioni. Il Senato delle Autonomie perde invece ogni ragione se i poteri delle Regioni vengono svuotati, oppure se ci si continua ad affidare alla Conferenza Stato-Regioni per compensazioni politiche poco trasparenti.
In ogni caso, lo ripeto, questa riforma, quella del federalismo e la nuova legge elettorale sono strettamente collegate. La questione delle garanzie degli equilibri costituzionali, posta da Vannino Chiti, è molto seria e non può essere brutalmente rimossa. Se il Senato diventa davvero delle Autonomie, sul modello del Bundesrat tedesco, è logico reimpostare il tema del federalismo e prevedere un’elezione di secondo grado. Ma un’elezione di secondo grado dei senatori renderebbe ancora più inaccettabile l’attuale impianto dell’Italicum, che a pari del Porcellum, sottrae ai cittadini il diritto di scegliere i propri deputati e affida il potere di nomina a strettissime oligarchie di partito. Non sarebbe più democratico né compatibile con i principi della Costituzione, un sistema i cui senatori fossero scelti dai consiglieri regionali e dai sindaci, mentre i deputati vengono tutti nominati dai capi-partito. Ancor più se il nuovo Senato avesse anche la funzione di revisione costituzionale. Se il governo non fosse disposto ad un confronto serio volto alla ricerca di una sintesi largamente condivisa, se non fosse disposto a riconoscere che i testi attuali creano vuoti pericolosi sul terreno delle garanzie costituzionali e dei contrappesi democratici, se non fosse disposto a cambiare in modo profondo l’impianto dell’Italicum, allora il testo della proposta Chiti diventerebbe l’ancoraggio indispensabile ad una cultura giuridica seriamente ispirata alla tradizione europea.