Carlo di Borbone non ebbe fama di gran Re, troppo impegnato a crogiolarsi tra vizi e ozi, allontanandosi spesso dal governo e dall’amministrazione dei suoi possedimenti.
“…il gran da fare ordinario della Corte, la cura più assidua, la fatica più diurna consisteva nelle cacce del re. Assai poco egli si tratteneva nella capitale, e quel poco era inframmezzato dalle “campagne” o “giornate” di caccia nei luoghi immediatamente vicini. C’eran poi i meno vicini e lontani, e quindi moto continuo di viaggi.”. Per far ciò, il sovrano si trasferiva senza sosta fra le sue molte residenze di caccia: Torre di Guevara, Bonino, Venafra, Procida, Portici, Persano…
[M. Schipa, “Il regno di Napoli al tempo di Carlo Borbone”, Napoli 1904, p. 290.]
Toglietemi tutto ma non la caccia, doveva essere più o meno il suo motto…
Sull’isola di Procida possedeva una delle tante riserve venatorie dopo averne confiscata la proprietà a Michelangelo D’Avalos, marchese di Vasto. Pur di non fallire un colpo… Carlo di Borbone impose agli isolani d’allevare fagiani… Scrive M. Schipa:
“A tal fine due magistrati […] D. Matteo de Ferrante e D. Domenico Caravita, presidenti della Real Camera della Sommaria, onorati del grave compito, distribuirono fra parecchi isolani i fagiani avanzanti con l’obbligo di custodirli, alimentarli, esibirli ad ogni richiesta, pena ducati 20 per ogni capo mancante”.
Guai se uno solo di questi animali da caccia veniva ucciso da un qualsiasi isolano, tanto che il Re impose pene severissime:
“Per l’uccisione di un fagiano, di un coniglio o altra bestia da caccia, decretarono la pena di 50.000 ducati con 7 anni di esilio pel nobile, di 100 ducati con sette anni di galera pel non nobile. Ma se l’uccisore era un ecclesiastico, in sua vece pagava e andava in galera il suo congiunto più prossimo, innocente. Severamente punito tenere cani e gatti, pel quale reato erano punibili anche gli ecclesiastici”.
[M. Schipa, “Reali delizie borboniche in Napoli nobile”, in “Napoli Nobilissima”, 1922]
Carlo di Borbone temeva altresì che altri animali potessero insidiare le sue prede preferite, pensare ai fagiani come loro cibo… Quindi proibì agli abitanti dell’isola di tenere con sé cani e gatti, con il risultato di una grande diffusione di topi.
“Siccome i gatti erano i nemici naturali dei fagiani grossi e piccoli, egli ordinò l’estirpazione della razza felina in tutta l’isola di Procida”. Il risultato fu un dilagare di topi, che giunsero a sbranare vivo un bambino in fasce: “I gatti non essendo più là per distruggere i sorci, ed i topi, questi pullulavano, e divennero audaci tanto, che un bambino nella culla fu divorato da essi”.
Questo scriveva Alexandre Dumas nella sua storia “I Borboni di Napoli” (Napoli 1864), raccontando le drammatiche conseguenze, non senza aggiungere che “Carlo III aveva una passione che dominava tutte le altre, la caccia […], che induriva il suo cuore, e che oscurava il suo spirito”.
Un altro tragico evento segnò la fine della pazienza dei procidani, fino alla rivolta:
“Questo fatto che avea diggià contribuito ad esasperare gli abitanti di Procida, coincise con un altro che non era tale calmarli. Un uomo il quale nonostante l’editto del suo re, avea conservato il suo gatto, sia per affezione a quello, sia per odio ai sorci, fu denunciato, imprigionato, convinto e condannato alla frusta; fu fatto andare per l’isola col suo gatto appeso al collo e quindi rinchiuso nelle galere. “Davanti alla condanna alle galere, quindi a fungere da rematore incatenato al remo, d’un uomo colpevole solo d’aver tenuto con sé il proprio piccolo felino, gli abitanti di Procida giunsero ad insorgere ed a minacciare che, se l’editto non fosse stato revocato, avrebbero chiesto aiuto ai pirati barbareschi “meno crudeli, secondo loro, d’un re che lasciava mangiare i loro figli dai topi, piuttosto che correre il rischio di veder mangiato dai gatti uno dei suoi fagiani”
(A.Dumas, “I Borboni di Napoli”, pp. 56-57).