di Perluigi Castagnetti
Capisco lo smarrimento del partito. Non credo tanto dovuto all’imprevisto e increscioso annuncio del ritiro della candidatura di Marco Minniti, quanto alla vera ragione che l’ha motivato, cioè l’ipotesi sempre più concreta di una nuova scissione guidata non da un socio qualsiasi, ma da Matteo Renzi. Proprio in questo momento così drammatico della vita politica del paese e del quadro internazionale. Per di più alla vigilia di difficilissime elezioni regionali, amministrative ed europee. Lo smarrimento rischia infatti di paralizzare i dirigenti periferici alle prese con la complicata fase della scelta dei candidati per le amministrative, che si sovrappone inevitabilmente con quella dello svolgimento del congresso.
Non parliamo dello smarrimento degli elettori.
La scissione è un errore in sé, terribilmente aggravato dal momento in cui si organizza e probabilmente si realizza. E’ la seconda volta nella vita recente del partito che chi sceglie di andarsene sceglie anche il tempo intenzionalmente propizio a fare più male. La politica è anche questo: cattiveria. Pur se viene negata, anzi, si dice, poi ci rialleiamo. Non mi scandalizza, ma bisogna saperlo e reagire.
Questo in genere accade quando i politici non riescono a emanciparsi dal loro “piccolo mondo” e non riescono ad alzare la testa per vedere il paese, l’interesse del paese, anche se il paese brucia e non occorre un grande sforzo per vedere ciò che tutti vedono a occhio nudo, persino fuori dalle nostre frontiere.
La situazione purtroppo a me sembra abbastanza compromessa e non servono gli appelli, la ricerca delle colpe, l’invito a soprassedere. E’ compromessa perché chi sta facendo la scelta è intimamente convinto della sua giustezza, perché pensa che ormai occorra un nuovo brand, perché tanto le prossime elezioni sono perse, perché il mondo, e l’Europa in particolare, vanno in una direzione che difficilmente potrà essere intercettata da un partito progressista. Secondo me sbagliando.
Dunque, cerchiamo di riprenderci rapidamente dallo smarrimento e dagli “interrogativi angosciosi” come li chiamava Moro: in politica si fa così, si riparte. C’è chi riparte da fuori, noi ripartiamo da dentro.
Di fronte a noi c’è la sfida difficile ma intrigante per le nuove generazioni di riuscire allo stesso tempo a consolidare e a cambiare l’Europa. Sappiamo bene che la tenuta dei conti con il metodo del “vincolo esterno” è stata la scelta necessitata dall’ indisponibilità della maggioranza degli Stati a mettersi veramente insieme in un’ampia sovranità economica e finanziaria che armonizzasse in modo reale e definitivo le politiche fiscali e quelle della spesa, cioè dei welfare nazionali. E questa impossibilità ha creato la situazione che vediamo: tutti i popoli europei ormai dichiarano di non poter continuare a reggere una situazione di crescenti e sempre più insopportabili disuguaglianze a danno degli strati sociali più deboli, ma anche di quelli non diseredati, i cosiddetti ceti medi. L’europeismo di Macron, che in un primo tempo aveva suggestionato anche me, in effetti coglie un punto di verità sul piano delle difficoltà istituzionali, ma non vede la dimensione sociale della crisi. I sovranisti guardano a un passato nazionalista privo di senso storico. Dunque, si può e si deve guardare avanti con speranza, anche se nulla ci sarà regalato.
Il presupposto non è solo quello della nostra forza, ma anche della nostra credibilità e della nostra unità interna.
L’unità del partito non è un dogma, ma oggi è una necessità politica. Gli italiani che stanno prendendo coscienza del rischio di recessione economica e morale (“Io temo le punte, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, della deformazione della libertà che non sappia accettare né vincoli né solidarietà”, Aldo Moro) dell’Italia, e che si riuniscono nelle piazze e nei convegni, ci guardano, non sono interessati più di tanto ai nostri dibattiti, ma ci chiedono di rappresentare un punto di riferimento per il dopo, per ciò che produrrà inevitabilmente, sempre per citare Moro, “il muoversi delle cose”. Ecco perché chiedo a tutti, a partire dai candidati alle primarie, di perseguire l’obiettivo dell’unità. Ci sono tempi in cui la chiarezza e la coerenza con le posizioni sostenute in precedenza debbono prevalere, ce ne sono altri invece in cui – senza violentare la propria coscienza – rinunciare a qualcosa, a qualche pregiudizio, a qualche convinzione che può essere declinata in modo meno rigido, a qualche rischio che pur venendoti paventato tu non condividi sino in fondo, non è un segno di debolezza ma di responsabilità.
Alziamo lo sguardo, dunque, per osservare ciò che sta accadendo in questo paese e ce ne convinceremo facilmente. Dopotutto investire ancora una volta, spes contra spem, nella fiducia in noi stessi non ce ne farà pentire.