In una delle recenti campagne pubblicitarie di Chanel una donna cammina davanti a un caffè parigino, quotidiano stropicciato in mano, classica borsa 2.55 sulla spalla, giacca bouclé e marinière bianca e blu. Poi si è fatta sera e in un altro scatto la modella, che non si vede mai un granché perché non è Kaia, non è Zendaya, insomma non è rilevante, è seduta fuori un bistrot, in tailleur bianco, con una dozzina di rose paffute e qualche patatina per l’apéro. Chanel, che più che prevedere il futuro lo determina, sembra avere preso una decisione chiara per la fine del 2021: dopo mesi di incertezze economiche e bei vestiti dimenticati negli armadi è arrivato il momento di focalizzarsi sui classici, meglio ancora se sono francesi e, dove possibile, di Chanel. Il giornale del mattino, il blu navy, i gioielli con le perle, i mazzi di fiori belli ma semplici sono piccoli dettagli che auspicano il ritorno della normalità e la valorizzazione di vecchi capisaldi. Sullo sfondo delle immagini, silenzioso e poco a fuoco, c’è un altro simbolo della tradizione, il bistrot, istituzione culinaria che da sempre offre piatti tramandati da generazioni in un’atmosfera rilassata. Con i muri a specchi, i piatti del giorno sulla lavagna, le emblematiche sedie in legno e una scorta infinita di baguette, il bistrot parigino è un santuario sociale, dove il tempo non è passato e per un giorno le calorie (tutto quel burro!) non contano.
Un occhio attento noterà i segnali del ritorno del bistrot e delle sue varianti europee – la brasserie, l’osteria, la taverna – anche altrove, sulle riviste nel rinnovato interesse per l’arredamento in paglia e rattan, o nei feed di Instagram, con fotografie di pallide sogliole al burro incastrate tra gli ultimi selfie al mare e le onnipresenti fette di pizza filanti, perfino nei prezzi inflazionati delle coppette per gelato vintage sui siti specializzati. Non è un vero e proprio rispolvero della cucina francese di Escoffier e non è solo una mania collettiva per i piatti bianchi con il profilo blu, verde o bordeaux, è più il sospetto che stia nascendo un movimento a favore di un neo-bistrot, dove accantoniamo per un momento le mode culinarie che si rincorrono e brilla la cucina tradizionale locale, sia questa francese, inglese, italiana, o tutte e tre insieme, poco importa. È la destinazione perfetta per chi avesse voglia di sedere a un tavolo circondati da caraffe e zuppiere, non si fa problemi a ordinare il vino della casa e si entusiasma alla vista di un centrino di carta, così meravigliosamente démodé, mentre si mandano giù insalate di porcini, polletti arrostiti alla perfezione e profiteroles goduriosi.
Il cibo del neo-bistrot spesso è poco fotogenico, essendo semplice e senza fronzoli. Il gusto prevale sull’estetica, tant’è che gli esperti di Eater, analizzando la recente ondata di ristoranti di questo stampo a Londra che vanno forte tra i millennial, da The River Café all’ultimo Cafe Cecilia, hanno provato ad etichettarlo senza successo normcore cooking o brown food, facendo riferimento a un’intervista di Another Magazine ad Anna Tobias (chef di Café Deco) in cui parlava con entusiasmo del cibo marrone dicendo che “(…) è una metafora del cibo semplice o del cibo che non ha paura di essere solo se stesso”. Non è ancora un trend riconoscibile, è (per ora) un immaginario informe, una sensazione, ma quando lo vedi lo riconosci e soprattutto lo desideri, perché parla una lingua che sappiamo e che ogni tanto ci rifiutiamo di parlare, presi a rincorrere il matcha e i poke: è il lato positivo della tradizione ingombrante, è rassicurante come una coperta e, cosa fondamentale, i sapori sono familiari ma possono ancora stupire quando l’esecuzione è impeccabile.
E confessiamo: abbiamo avuto mesi e mesi per imparare nelle nostre cucine, ma certe ricette al ristorante le eseguono meglio perché non si preoccupano di tenere d’occhio i grassi e hanno materie prime migliori. Sembra che in tanti ci stiano invitando a trovare rifugio nei classici, a partire da quella pubblicità di Chanel fino ai ristoratori londinesi, tutti intenti a ricordarci che la sostanza è quello che conta e i fronzoli sono opzionali. Troviamo allora tempo, prima che l’anno finisca, di varcare la soglia dei locali che ci sono sempre stati: se c’è qualcosa che ci meritiamo di questi tempi è proprio quel boccone dolcissimo assaporato con calma in una konditorei viennese, un macchiato al Caffè Florian o la cioccolata con la panna nell’inverno di Torino. Bon vivant per un giorno, i cruffin comprati alla pasticceria sulla provinciale possono per oggi aspettare.