Luglio 2015: attentato a Suruç, al confine con la Siria, attribuito dalle autorità allo Stato islamico, una trentina di morti circa; uccisione di due poliziotti a Ceylanpınar, rivendicata dai militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk); ancora, altri attacchi alle zone di frontiera lungo il confine con la Siria, con risposte da entrambe le parti. Agosto 2015: un altro attentato suicida contro i soldati turchi attribuito al Partito dei lavoratori; attacco al consolato statunitense a Istanbul da parte di due terroristi e, non molte ore fa, spari ad Istanbul davanti al palazzo Dolmabahçe, sede degli uffici del Primo ministro. È soltanto una parte di quello che succede in Turchia già da un po’. Volendo, si potrebbe risalire indietro ai mesi di giugno, maggio, aprile e così via, e scoprire altri eventi non dissimili da questi.
Tutto questo mentre il Paese si prepara alle elezioni anticipate, come ha dichiarato lo stesso Presidente Erdogan, dopo che le trattative per mettere in piedi un governo di coalizione sono fallite e il premier Ahmet Davotoglou ha rassegnato le proprie dimissioni. Facile dire che in Turchia c’è qualcosa non va. Il discorso si fa un po’ più complicato soltanto a pensare quegli attacchi, quelle pressioni, quelle resistenze hanno origine da zone diverse. La stessa Turchia, ormai, appare sempre più chiaramente come un crogiolo di forze, minoranze e orientamenti diversissimi.
Innanzitutto, c’è il problema dei curdi, la più consistente minoranza del Paese, che da decenni lotta per vedere riconosciuto il proprio diritto all’autodeterminazione. Riuniti dal 1984 nel famigerato Pkk, i curdi hanno ingaggiato una lotta armata che ha portato fino ad oggi ad un totale di 35/40mila morti e un numero esorbitante di prigionieri, politici e non, vittime di torture e violazioni dei diritti umani secondo Amnesty International. Nonostante negli ultimi anni dal Pkk siano arrivate richieste d mettere fine alla guerriglia, gli attacchi continuano da ambo le parti, e il partito continua a non essere riconosciuto dal governo, aggiungendosi alla lunga lista di movimenti politici clandestini turchi di cui fa parte anche il Fronte Popolare Rivoluzionario di liberazione, o Dhkp-C, quello che ha prima sequestrato, e poi ucciso, il procuratore turco Mehmet Selim Kiraz.
Il Dhkp-C è un gruppo di estrema sinistra di ispirazione marxista-leninista (come tanti altri in Turchia), che se la prende un po’ con tutte le istituzioni e le forze della polizia, ma soprattutto con l’America, la Nato e tutto ciò che ricordi troppo l’Occidente. Ma soprattutto, c’è la questione dell’Is, da cui neppure la Turchia riesce a sottrarsi, anzi, la riguarda molto da vicino: perché lo stato turco è proprio il terreno di passaggio di moltissimi jihadisti (anche europei) diretti in Siria. Anche se l’intervento di Ankara contro i militanti dello Stato islamico è stato piuttosto tiepido fino ad ora, la Turchia ha riconosciuto l’Isis come gruppo terrorista, e da parte sua l’Isis invita i turchi a ribellarsi contro Erdogan e il governo.
Ora, secondo gli ultimi sondaggi, il partito di Erdogan è in netto calo, e la motivazione più semplice che si può trovare è l’impossibilità di accontentare tutti. Qualcuno, siano essi i curdi, o i musulmani, o l’estrema sinistra, o i simpatizzanti siriani, resterà necessariamente scontento. Ed è assolutamente fondamentale che Erdogan e il suo partito scelgano con cura le proprie alleanze, perché un aiuto dall’Europa e dagli Stati Uniti, in questo quadro, può rivelarsi più che mai indispensabile.