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COSA CI RESTA DI SANREMO

Sanremo è sempre stato divani, tante persone e pizza.
Seratone passate in piedi, ed il permesso di rimanere sveglia per guardare la finale quand’ero piccola.
Quest’anno, cari lettori è stato tutto così diverso. Così solo. Tante canzoni ma in un certo senso, tanto silenzio.
Cosa resterà di questo Sanremo? La domanda può essere canticchiata anche sulle note della vecchia canzone di Raf che, lei sì, è entrata a pieno titolo nella storia del Festival.

Così, a sensazione, non ci sono quest’anno brani che rimarranno nella testa della gente come è successo per l’interrogativo “raffesco” che chiudeva gli Anni Ottanta.
Nell’era dell’infallibilità, quella in cui se riconosci di avere sbagliato in qualcosa sei pronto al cammino di Santiago pur di espiare la colpa di averlo riconosciuto pubblicamente, ammettere che qualcosa della macchina organizzativa del Festival di Sanremo 2021 non abbia funzionato come avrebbe dovuto è tutto fuorché scontato.

Eppure, alla vigilia, nonostante i commentatori agguerritissimi di Internet scrivessero un po’ ovunque che questo Sanremo non si sarebbe dovuto fare perché irrispettoso e inopportuno, eravamo tutti convinti che sarebbe stato un successo. Ce lo dicevano i numeri dell’anno scorso e le misure restrittive che impediscono agli italiani di uscire di casa dopo le dieci di sera rinunciando alla famosa «movida» che, spesso e volentieri, è stata usata come alibi per giustificare il fatto che la gente non restasse a casa a guardare la tv.

Eppure, nonostante tutto, la flessione degli ascolti di Sanremo 2021 è innegabile: cala lo share e cala il numero degli spettatori nonostante la chiusura a notte fonda e una platea televisiva che, come ha sottolineato il Corriere, è pressoché la stessa di un anno fa, appena superiore di 6mila teste da contare.
Vero che questa edizione del Festival di Sanremo non si può paragonare alle altre perché la situazione è del tutto eccezionale, perché non c’è il pubblico, perché è andata in onda a marzo anziché a febbraio, perché ci sono le partite, perché i cantanti in gara sono più indie di un circolo Arci, e perché, come ha avuto modo di sottolineare lo stesso Amadeus nella giornata di giovedì, «la gente è arrabbiata».

A nostro parere, è questo il vero motivo che ha trasformato Sanremo dall’evento dell’anno a un programma en passant. Da essere il giorno di Natale, Sanremo è diventato un giorno feriale, quotidiano, addomesticato: se fino all’anno scorso l’Italia si fermava per guardarlo, ora l’Italia è ferma di per sé e può benissimo scegliere come occupare le sue giornate avvolte dal vello della paura e della prospettiva che la tanto agognata ripartenza non sia poi così vicina.

L’epidemia, per quanto si cerchi di ignorarla, è questo enorme elefante nella stanza quello che non fa vivere sereni gli spettatori. Sia chiaro, non è che nel 2020 non avessimo i nostri problemi per la testa, ma quest’anno è diverso, tutto sembra freddo e incolore e non c’entra il fatto che Sanremo chiuda alle 2 di notte e metta in scaletta più roba di quanta ne possa contenere: c’entra che vedere Emma D’Aquino dire al Tg1 che i contagi giornalieri per il Covid-19 sono saliti a 22mila e un attimo dopo vedere Fiorello che trappa sulle note di Grazie dei fior è qualcosa che provoca un certo disagio inconscio, come se non volessimo davvero lasciarci andare alla leggerezza che gli psichiatri ci dicono ogni giorno di inseguire per preservare la nostra sanità mentale. Aldo Grasso sul Corriere scrive: «Posso solo supporre che un anno di pandemia ci abbia profondamente cambiati, che la perdita di gusto non sia soltanto un sintomo materiale, che ci stiamo abituando a un tipo di vita penitenziale, privo di qualsiasi libido».

È questa la premessa dalla quale bisogna partire e che, in un certo senso, solleva da qualsiasi responsabilità sia il conduttore e direttore artistico Amadeus sia il cast che lo accompagna ogni sera, cast che con tutte le proprie forze cerca di trasmettere da casa che è tutto come sempre, che Sanremo è sempre Sanremo. Poi la telecamera inquadra le poltrone vuote, la regia fa partire gli applausi registrati, i fiori arrivano su un carrellino in plexiglass sanificato, e allora ti rendi conto che non è normale per niente e che questa edizione rimarrà, volente e nolente, nella storia e nella memoria di tutti noi.

Infine loro: Amadeus e Fiorello, Ama e Ciuri, Amorino e Patato. Dopo essere sopravvissuti indenni al «passo indietro» dello scorso anno sono ancora lì a darsi manforte e a dirsi che ce la faranno. Si vogliono bene, si spalleggiano come due colleghi molto più che colleghi, due fratelli un pò meno di fratelli, due amici un pò più di amici, insomma capaci di farcela da soli eppure sono lì insieme (un pò come me e la Martino).

Si riappropriano del teatro vuoto come se il loro fosse un esercizio di confidenza con lo spazio circostante (è successo la prima sera, quando Fiorello ha preso sottobraccio Ama e lo ha portato lì dove la telecamera non voleva arrivare: alle poltrone rosse vuote in platea) e sono lì per ricordarci non solo che l’amicizia vera esiste, ma anche che l’impegno e la dedizione possono qualunque cosa. Sanremo 2021 doveva essere fatto: non poteva essere rimandato perché sarebbe stata una sconfitta per tutti e, in modo particolare, per le casse della Rai che languono, e Amadeus e Fiorello hanno detto sì. Hanno detto sì quando sarebbe stato molto più comodo dire no, passare la patata bollente a qualcun altro e farsi i complimenti per aver fatto la scelta più assennata della loro carriera. Invece no, Amadeus e Fiorello sono ancora lì facendo probabilmente la cosa più difficile del mondo nel Festival più difficile della storia: portare al porto una nave che sta imbarcando acqua assicurandosi che tutti i passeggeri siano in salvo non solo dal Covid, ma anche dalla malinconia che è la cosa peggiore che tutti noi stiamo attraversando in questo periodo. Se ne usciremo migliori o peggiori è già stato assodato, ma quantomeno lasciate che questi due capitani portino a termine l’impresa e, se possiamo, cerchiamo di non vessarli e di non dare loro addosso: sono due eroi e forse, quando tutto questo sarà finito, consapevoli della retroattività dei giudizi che va tanto di moda oggigiorno, ci ricorderemo di fare loro una statua come Achille Lauro alla terza sera.

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